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Scontro d’autore: Due scrittori, due romanzi, due interviste…



Nelle ultime settimane in tutte le librerie italiane sono arrivati due romanzi concepiti e scritti a Firenze, che stanno facendo molto parlare di sé. Il primo è Se fossi fuoco arderei Firenze, uscito a fine ottobre per Laterza. Il secondo è L’ascensione di Roberto Baggio, appena pubblicato da Mattioli 1885. Il primo l’ha scritto Vanni Santoni. Il secondo l’ha scritto Vanni Santoni, ma a quattro mani con Matteo Salimbeni. Goldworld ha messo i due autori uno contro l’altro.

Matteo Salimbeni intervista Vanni Santoni
su Se fossi fuoco arderei Firenze

Santoni, Se fossi fuoco arderei Firenze, che d’ora in poi chiameremo SFFAF, è un romanzo sulla città Firenze o è un romanzo corale a cui fa da sfondo Firenze? Potrebbe essere ambientato altrove?

Quello che mi interessa maggiormente quando scrivo sono le persone – per dire, oggi ho trovato per caso in rete una frase di Tucidide che sarebbe stata perfetta, forse anche migliore di quella che ho messo, come epigrafe di SFFAF: “Gli uomini sono la città, non le mura né le navi vuote di uomini” – ma stavolta, almeno nell’impostazione del lavoro, sono partito dalla città. Di solito comincio da un pugno di personaggi, o da un pezzo di vicenda ancora senza volti. Stavolta sono partito dalla topografia fiorentina, e il primo capitolo in questo senso è emblematico; programmatico, quasi. Così anche l’ultimo. Le digressioni, poi, sono fortemente tematizzate: parlano di Firenze, delle cose che ci sono a Firenze. SFFAF ha in sé anche alcuni personaggi, alcune vicende, che affrontano tematiche per così dire universali, ma in effetti, alla fine di ogni conto, risulterebbe difficile separare questo romanzo dalla città in cui è ambientato.

Che metodo di lavoro hai seguito per scrivere SFFAF, per legare le molte storie che contiene? Quanto ci hai messo per scriverlo?

Ho iniziato con una mappa di Firenze, di quelle pieghevoli che vendono alle bancarelle. Ho fatto dei cerchi a pennarello sui luoghi che mi interessavano. Nei giorni successivi ho abbozzato un listone di possibili personaggi, alcuni presi dalla fauna di quei luoghi, altri che semplicemente mi ballavano in testa e avrebbero trovato un buon palcoscenico in questa o quella strada. A partire da quella lista ho scritto dei bozzetti, brani di dialogo, pensieri, e da essi ho cominciato a costruire le possibili vicende che quei personaggi avrebbero potuto trovarsi a vivere.

Ho anche fatto molti molti schemi, per legare al meglio i personaggi e per capire che tipo di vicende ancora mancassero, e dove collocarle rispetto a quelle che avevo già impostato. A metà di questo lavoro il libro iniziava a trovare una forma e allora ho cominciato a scrivere a testa bassa. Il libro ha avuto, se non ricordo male, tre mesi di pura progettazione, sei mesi di scrittura (e riscrittura) e altri due di revisione delle ultime bozze.

La maggior parte dei protagonisti di SFFAF sono giovani dai venti ai 35 anni. C’è un motivo particolare per questa scelta?

Il romanzo è dominato da un’atmosfera sospesa. Non è un caso, ad esempio, che la sua linea temporale non sia lineare, ma strutturata come un nastro di Möbius. Probabilmente la generazione che citi, per tutta una serie di ragioni, tra cui la precarizzazione, la gerontocrazia, l’essere cresciuta in una eterna adolescenza, è quella che più si sente fuori da qualunque discorso di evoluzione del sé: è intrappolata nel presente, e quindi più adatta a raccontare un certo stato d’animo, stato d’animo che peraltro espone a patire maggiormente la costante presenza, fortissima a Firenze, di un passato glorioso.

C’è un sentimento, una condizione, un minimo comun denominatore che lega tutti i personaggi di SFFAF?

Una nostalgia? Quella forse lega tutti i personaggi dei miei libri. Qui forse il sentimento specifico dominante potrebbe essere quello di una costante, e non sempre voluta, dialettica col passato.

Quanto c’è di personale nelle esperienze e nelle storie che racconti?

SFFAF è un romanzo: le vicende, i legami, i personaggi stessi, sono inventati. Al tempo stesso però molto nasce da una storia vissuta o vista, da una sentita dire, da un’altra che è ormai tradizione orale o leggenda di questo o quel gruppo. Storie da intendere come semi, però, più che come canovacci: si prende la vicenda – o anche la leggenda – cittadina, e la si cambia di contesto, la si manipola; a volte la si stravolge, altre se ne ibridano le varie figure per ottenere personaggi nuovi.

C’è un personaggio al quale sei affezionato più di altri?

Di primo acchito direi Giovanni e Diego: alle presentazioni leggo spesso il passo sul loro incontro nella casa buia, ma forse sono più affezionato a quel brano che a loro come personaggi. Credo sia un brano in cui si incontrano due anime importanti del romanzo, quella più vicina alla commedia e quella metafisica. Come personaggio in sé mi piace Ander, tant’è che gli ho fatto fare un cameo anche in una cosa che sto scrivendo in questi giorni. Credo che Doris, pure, sia ben riuscita. Anche Annabel, forse: la sottovalutavo ma adesso leggo che suscita reazioni, fa parlare di sé, ha insomma una bella vita propria.

Vanni Santoni intervista Matteo Salimbeni
su L’ascensione di Roberto Baggio

Salimbeni, come vi è venuto in mente di scrivere un libro su Roberto Baggio? Genesi, storia, percorso. Racconta tutto.

Eravamo a casa mia, a Firenze. Nel 2006. Con Vanni Santoni. In quel periodo facevamo una rivista insieme, “Mostro”. Stavamo ragionando di libri, letteratura. Ricordo il tavolo del salotto, bicchieri di vino, posate. E un mucchio di fogli bianchi. Ci guardavano mesti, aspettando di essere riempiti. Cominciammo a parlare di calcio e presto il discorso si spostò su quello che per noi era il simbolo del calcio: Roberto Baggio. Nel giro di qualche minuto i fogli bianchi si riempirono di scritte. Di ricordi. Scrivere un libro su Baggio è stato, per prima cosa, ricordare il mio rapporto col calcio. Da quello giocato a quello visto e parlato, dalla conca fangosa del Firenze Sud al tappeto verde dell’Artemio Franchi. Baggio ci aveva accompagnato sempre, per tutti quegli anni.

Ben presto mi accorsi che parlare di Baggio significava aprire un varco infinitamente più grande del singolo giocatore. Che ogni volta che veniva nominata la parola Baggio, oltre ai suoi gol e al suo volto, affiorava una caterva di momenti e protagonisti storici: Antognoni, Italia ’90, Sacchi… I volti e le avventure di vent’anni di calcio. Accanto alla tecnica e alla tattica, c’erano i personaggi eroici, i malvagi, le comparse e le macchiette, i ciarlatani e i vecchi saggi. Come in un romanzo. Anche cose che, apparentemente non c’entravano niente. Assonanze. Indecifrabili epifanie. Pergolizzi, Ezequiel Gonzalez, l’Avvocato Prisco. Il calcio andava oltre lo sport. Sconfinava. Diventava un viaggio nel tempo. Baggio non poteva essere raccontato solo tramite una biografia.
 
Le prime bozze sono del 2007. Poi una revisione sostanziale nel 2009. Infine una riscrittura quasi integrale, con molti tagli nel 2011. Cosa è cambiato? Come sono cambiati gli autori negli anni?

Il primo libro era lungo il doppio di quello pubblicato. Era un fiume in piena. Un’antologia esplosiva e sconnessa della memoria. Fino ad allora avevo scritto solo racconti e alcuni romanzi, tutti rigorosamente abbandonati dopo una decina di capitoli. Dal 2006 al 2011 sono cambiate tantissime cose. L’Italia ha vinto un mondiale. Sono andato a vivere a Milano, per studiare teatro alla Paolo Grassi. L’Italia ha perso miseramente un mondiale. Vanni ha scritto altri romanzi. Io ho scritto altri racconti e spettacoli teatrali. Spesso il lavoro di riscrittura e revisione proseguiva a distanza. L’Ascensione di Roberto Baggio ci ha seguito in tutti questi anni, e noi abbiamo seguito il libro. Lo abbiamo tagliato. Lo abbiamo riorganizzato. Ci abbiamo messo le esperienze di scrittura (e non) maturate nell’arco di cinque anni. L’Ascensione di Roberto Baggio, da questo punto di vista, è un specchio in cui si riflettono più immagini. Come eravamo. Come siamo. E, forse, come saremo.

Si parla molto di questi “santini” di Roberto Baggio: reazioni?

I santini sono una splendida trovata del nostro editore. In un certo senso il libro è davvero un’ascensione: parte dal Baggio calciatore, passa attraverso il Baggio uomo, e arriva al Baggio Mito. Ogni volta che mi è capitato di osservare (in incognito) qualcuno che leggeva i santini è stato un incanto e una cosa esilarante. Le reazioni sono varie: dalla commozione, al “che cazzata è questa”, al rapimento mistico. Ma tutti li guardano, se li rigirano fra le mani.

L’altro giorno ero in un trippaio fiorentino e un padre ha letto a alta voce tutto il retro del santino al figlio che avrà avuto dieci anni. Ci ha messo cinque minuti a leggerlo, per quanto la frase sul retro sia di poche righe. Il figlio lo fermava in continuazione: “Baggio chi?”; “Chi è Zeus?”; “Che vuol dire avatara?”. E il padre gli rispondeva, dando vita a una girandola di aneddoti. “Quando andavo allo stadio io…” “Baggio era questo e quello…” “Avatara… avatara… boh… te lo dirò quando sei più grande…” Sembrava un racconto del nostro libro, Il dialogo del padre col figlio. I santini sono il miglior modo per trasferire nella realtà di ogni giorno il significato profondo de L’Ascensione di Roberto Baggio.

Ho sentito dire che dietro ogni personaggio che fa il suo “racconto” ai protagonisti, si cela una maschera del mondo del calcio. È vero?

Durante il romanzo i due protagonisti incontrano dei personaggi che gli raccontano una storia su Baggio. A volte origliano e basta, mentre gli altri parlano di Baggio. Alcuni di questi sono dei personaggi del mondo del calcio. Reinventati, perché sempre di un romanzo si tratta. Altri sono delle persone incontrate, per caso. Per strada, in treno. Perché Baggio ha un posto nella memoria di ognuno. Anche in quella delle persone che del calcio non gli importa niente.

Sette giorni fa. Era dal mio giornalaio di Milano. Gli stavo parlando del libro. Il giornalaio che è un uomo parecchio timido, si illumina e fa a un’altra cliente (straniera… sudamericana). “Capito… Baggio?” Silenzio. “Baggio!” La cliente sudamericana si stringe nelle spalle. Poi dice: “Baggio… Il rigore?” Ognuno ha il suo Baggio personale.

Il tuo qual è?

1990. Firenze. Via Ghibellina. Salgo le scale di casa di mia nonna Elba. Lei davanti, io dietro. Ho otto anni. Mia nonna ha 63 anni ed è una sottana. Nel senso che, nel ricordo, mia nonna è solo una sottana che sale le scale. E una voce. La voce di mia nonna dice: “Adesso chiamiamo Luca. Luca di sicuro lo sa.” Mi blocco. Mi guardo intorno. Luca è il cugino di mio babbo. Cerco la sottana dell’Elba. Non la trovo. Mi sento solo, su quelle scale. Abbandonato. E non riesco a salire. Luca sa se Roberto Baggio è stato venduto alla Juve. Il mio Baggio personale sono molte cose. Ma il mio primo “Baggio personale” è questo.

Foto della cover di Giuseppe D’Ambrosio.