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Mad Men | “This is America”



Quando si parla di serie “culto”, Mad Men è sempre citata nell’Olimpo di quella che è stata definita l’inizio dell’era della “Tv Quality”; che è arrivata all’oggi, iniziata all’interno della rete HBO con serie come Sex and the City e The Sopranos; «la più grande opera di cultura popolare americana dell’ultimo quarto di secolo» per il New York Times. Proseguita poi con Breaking Bad e, tra gli altri, Mad Men.

«It’s not tv. It’s HBO»

Slogan di HBO negli anni del rinascimento televisivo

Opere accomunate, alcune più, altre meno, da un’impostazione ibrida tra quello che era stato il classico format televisivo fino ad allora; le sitcom, i drama ad episodi autoconclusivi con nessuna o scarsa trama orizzontale, e quello che è l’impianto produttivo cinematografico. Non solo dal punto di vista tecnico, con una attenzione tutta nuova alla messa in scena audiovisiva; ma anche e soprattutto dal punto di vista produttivo. Una o più figure che decidono di lavorare contemporaneamente come creatori, showrunner, produttori esecutivi, registi e sceneggiatori, rendendo il loro prodotto strettamente personale e autoriale. In un certo senso, qualcosa di simile a quello che era stato “l’esperimento” Twin Peaks di David Lynch e Mark Frost nel 1990.

Fortuna vuole che la figura-padre di Mad Men sia stato Matthew Weiner, probabilmente la penna migliore nel campo della serialità americana attuale. Forgiatosi tra le fila degli sceneggiatori dei Sopranos, Weiner decide di portare in tv un decennio fondamentale degli Stati Uniti e di tutta la cultura occidentale.

Dal 1960 al – data non casuale – Novembre 1971. Anni in cui a New York, a Madison Avenue, la fabbrica degli elfi di Babbo Natale della nuova dirompente modernità, si «vendeva la felicità» ( D. OgilvyConfessions of an Advertising man).
Sede delle più importanti agenzie pubblicitarie dell’epoca, la via era la regina indiscussa della nuova era consumistica che si stava impossessando del mondo. I loro Advertising men, i re Mida di quest’impero: un comparto di creativi, account executive, grafici e copywriter; divenuti il sogno proibito di tutti i “cosa vuoi fare da grande?”. Personaggi dalle vite sfavillanti e dissolute. Mad Men era l’appellativo con cui venivano chiamati. «Lo avevano coniato loro.» recita il tagline della serie.

Attraverso la Babilonia moderna del vizio, Weiner e i suoi autori raccontano non solo un decennio di luci e – molte – ombre, facendo scorrere dietro alle vite degli advertising men eventi fondamentali della storia recente americana (come la crisi di Cuba, l’omicidio Kennedy, l’assassinio di MLK e lo sbarco sulla Luna); ma tenta soprattutto di raccontare quelle che sono le criticità della nostra società che si è ormai evoluta nel post-capitalismo. Un esempio fra tutti, il ruolo che in essa ha, aveva, e ha assunto la donna; che gli autori riescono a trattare con una sensibilità praticamente unica in tutto il panorama seriale.

Ma questa è solo la prima lettura superficiale del capolavoro – e forse per una volta l’appellativo più abusato degli ultimi anni quando si parla di un’opera pop è usato a ragione – di Weiner. Mad Men lo ha portato a fare incetta di premi, ad una mostra al MoMa, a fiumi di parole spese dalla critica; ottenuti non solo per merito della pignoleria del suo autore, che ormai è divenuta proverbiale (Link), ma anche grazie al colossale lavoro di costumisti e scenografi, di una regia che guarda ora alle commedie di Wilder, ora ad Hitchcock o all’eleganza filmica di Wong Kar-wai.

Mad Men Opening Credits

No, Mad Men è riuscito ad insinuarsi nel cuore di pubblico e critica, generando in patria quasi un vero e proprio culto. Perché ha saputo raccontare con occhio critico, a tratti anche profondamente nichilista, la rovina del sogno capitalistico in cui viviamo oggi.
Ogni episodio della serie si apre con i magnifici opening titles, ispirati a quel gigante della grafica che è stato Saul Bass (se non sapete di quale figura rivoluzionaria si stia parlando, guardate qui); che ci mostrano la silhouette di un uomo in caduta libera giù da un grattacielo newyorkese; non il metaforico palazzo di cento piani di La Haine, ma un’iconografia ben precisa.

The Falling ManRichard Drew 

Il rimando allo scatto fotografico più importante di inizio secolo, il The Falling Man delle Torri Gemelle. L’immagine simbolo del crollo di tutte le illusioni dell’America capitalistica, quell’America che ha iniziato a sfavillare negli anni dei Mad Men; che ha continuato ad ardere con l’edonismo dell’era Reaganiana e che ha iniziato a spegnersi forse proprio in quel momento, con quella caduta vertiginosa; e che proprio in questi giorni sembra sempre più prossima all’inevitabile, dolorosissimo, schianto.

È la parabola discendente compiuta dall’ambizione nella nostra società. Che serpeggia e si incarna in – quasi – tutti i personaggi della serie; che nascondono l’abisso che si apre sotto di loro dietro al tocco dorato della pubblicità. Il feticcio con cui Weiner gioca e demistifica le impalcature dei luminosissimi sixties, che, forse, così luminosi non lo sono davvero mai stati.

È il tocco che plasma le immagini dalle quali l’uomo moderno è costantemente bombardato, capace di inventare al posto suo desideri che, forse, non pensava neanche di possedere. “Tu sei il prodotto” (Cit.) è la prima regola di ogni copywriter; ciò che chiamiamo “nostalgia”, “amore”, “È stato inventato da gente come loro, per vendere collant” (Cit.)

La pubblicità si basa su una cosa sola: la felicità. E sapete cos’è la felicità? La felicità è una macchina nuova, è liberarsi dalla paura, è un cartellone pubblicitario che ti salta all’occhio e che ti grida a gran voce che qualunque cosa tu faccia è ben fatta. E che sei ok.

Don Draper

Senza lasciarsi andare ai soliloqui allucinati di un Tyler Durden, Donald Draper, il protagonista della serie, illustra attraverso i suoi magnetici pitch – termine che indica le presentazioni pubblicitarie che creativi e account sottopongono ai clienti per il loro prodotto – tutti gli ingranaggi della fabbrica della felicità che è la sua America.

Anzi, Weiner spinge ancora di più sull’acceleratore: il suo Don, direttore creativo di una delle agenzie più prestigiose di Madison Avenue, è il figlio più puro di quest’America. L’uomo dal lavoro che tutti sognano nel centro città, la famiglia perfetta in periferia, che può avere qualsiasi donna, conquistare qualsiasi cliente, nasce dalla menzogna. Una figura che è immagine sublimata del self-made man, il doloroso cartellone pubblicitario che il suo autore fa del sogno americano. Dietro l’uomo che inventa la felicità c’è una vita rubata a qualcun altro e costruita da zero sulle macerie di una grande depressione, per divenire splendente e luminosa, come i suoi slogan e i suoi spot, fumo negli occhi delle sue innumerevoli sigarette.

Don Draper è l’America in caduta libera fra le icone della sua opulenza smodata e ipocrita, in crollo inarrestabile fra i grandi rivolgimenti della sua storia.

Mad Men si configura come l’erede del grande romanzo americano, del grido di allarme delle ballate di Bob Dylan; della recentissima “This is America” di Childish Gambino.

L’opening e la serie tutta ci lasciano una domanda: se e quando arriverà lo schianto troveremo, in fondo alla discesa, di nuovo quell’uomo; vestito di tutto punto, abbandonato su un divano assieme alla sua sigaretta?

Cosa ne sarà di tutti i nuovi fermenti, tutto il cosiddetto “progresso”, tutto quello che sarebbe dovuto essere il nuovo mondo, che ci scorrevano veloci davanti agli occhi durante la caduta? Impareremo, troveremo in essi finalmente il modo di arrestare la rovina e risalire o ci defecheremo sopra, li schiafferemo in una bottiglietta di plastica o vetro e la getteremo al mondo incollandovi l’etichetta di “felicità”?

Se cercate la risposta immaginata da Weiner e dai sui Mad Men, andate un po’ a vedere quale spot andava in onda in quel novembre 1971.