Margherita Landi

Come siamo arrivati a P2P-da Persone a Profili

La riflessione di P2P è iniziata dalla progettazione che inizialmente aveva come perno l’idea di costruzione dell’identità digitale. Il punto di partenza è stato quindi riflettere sulla pratica di pubblicare informazioni selezionate sui social, andando a costruire un’immagine di noi “migliorata”. La domanda che ci tornava in mente in continuazione è: quanta verità c’è in ciò che pubblichiamo sui social?

Pubblichiamo solo il meglio di noi, cioè censuriamo tutto ciò che non vogliamo che rimanga sul nostro profilo, mettendo l’attenzione su ciò che consideriamo il meglio per la nostra immagine. Fin qui tutto abbastanza normale, anche quando usciamo di casa in realtà facciamo lo stesso processo, ognuno avrà standard diversi, ma più o meno tutti la mattina scegliamo cosa mettere addosso tra ciò che abbiamo comprato e quindi selezionato.

In sostanza stiamo parlando della differenza tra spazio pubblico e privato, per esempio: in casa giro in mutande, ma vado al lavoro in giacca e cravatta.

Ma il social ridefinisce queste due sfere, il profilo social è uno spazio pubblico o privato?

La sensazione di voyerismo che abbiamo quando guardiamo un profilo è molto simile a quella che abbiamo guardando nella serratura di una porta. Abbiamo la sensazione di spiare momenti privati, di poter intuire che tipo di persona lo abita. Anche qui ognuno avrà standard diversi ma per qualcuno il profilo social è uno spazio privato da condividere solo con pochi, per altri è uno spazio pubblico nel quale mostrarsi solo per ciò che desidera apparire, migliorandosi e potenziandosi, per rendersi più amabile agli occhi degli amici. Come per il vestire quindi sembrerebbe una questione di gusti personali.

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Adesso complichiamo un pò la visione. Fin qui tutto semplice, ci miglioriamo sui social, e forse lo facciamo nonostante le critiche che lanciamo agli altri quando pubblicano qualcosa che per i nostri standard è pacchianamente narcisista…

Jacopo Mele, Digital Life Coach e geniale consulente per il nostro progetto, mi ha spiegato quanto sia importante al giorno d’oggi imparare da questa pratica. La nostra società ci indirizza verso l’eclettismo, le figure professionali sono sempre più complesse, articolate e variegate. Imparare a definirci e a selezionare le informazioni importanti per comunicare chi siamo e cosa facciamo sarà, secondo Jacopo, una skill fondamentale nel breve periodo (già lo è in molti settori). Il lavoro che i social ci stanno insegnando a fare, per quanto sembri futile, secondo Jacopo è molto importante se ne prendiamo coscienza.

Altro punto di vista interessante è per contro l’accesso alle informazioni che ci servono. Nella giungla di internet, che sta diventando una biblioteca di Babele che contiene tutto e il contrario di tutto come posso trovare solo i contenuti che per me sono importanti? non me Margherita Landi :), ma me ipotetica studentessa che ambisco a diventare una figura professionale dalle mille competenze diverse, incrociate insieme, per creare un profilo quasi unico. Un’azione banale come la ricerca di parole chiave su Google è un primo passo in questa direzione. Ma immaginiamo un futuro sovraccarico di informazioni ridondanti, come potremmo sviluppare la nostra formazione, diventando una figura professionale unica grazie all’accesso diretto di informazioni specializzate? sempre tramite un’accurata pratica di costruzione dell’identità svolta in precedenza da persone che hanno reso accessibili i loro contenuti e rivoluzionando l’educazione e la proposta formativa

(A tale proposito vi consiglio la Fondazione Homo Ex Machina che propone tra i vari progetti di filantropia digitale anche alcuni riguardanti nuove percorsi di formazione per i più giovani, attraverso delle summer school.)

Insomma è un serpente che si morde la coda… effettivamente l’altro giorno per cercare un fabbro, la prima cosa che ho fatto è stato digitare “fabbro” e la mia zona su Google, è stata una delusione vedere quanti pochi fabbri hanno un sito o una pagina qualunque con un numero o un contatto, quell’unico che aveva un sito chiaro con scritto grande “disponibile per urgenze 24h su 24” ha avuto il lavoro.

La nostra società ci chiede di essere reperibili, comprensibili, comunicabili, multitasking e brandizzabili.

Il processo che impariamo nei social dunque non è altro che un processo di branding puro e semplice.
Per un antropologo è decisamente interessante la progressiva sostituzione del termine “identità”, con il termine “brand”.

Come già sostenevo nella mia tesi “Improvvisazione in danza come spazio liminale” l’improvvisazione come pratica performativa è nata per parlare del “dramma sociale” legato alla scelta. Nell’ultimo capitolo spiegavo come tale problema sia legato all’aver assunto le leggi del mercato economico a legge di “vita”.

Non credo ci sia un giudizio definitivo positivo o negativo su questo spostamento antropologico, ma credo che ognuno di noi debba prendere coscienza che si tratta di una visione e che racchiude una politica del corpo precisa. Nella mia tesi analizzavo la politica proposta dal mondo artistico degli improviser, un’altra visione disponibile del problema, se non la conoscete, vale la pena conoscerla!

A me piace sentirmi un “animale sentimentale” (per citare The Do in “Trustful hands”) o “un mammifero danzante” (per citare E. Satie) più che un brand…Ma di fronte alla necessità di divulgare il mio lavoro ho aperto un sito e un blog. Quindi credo si possa essere eclettici anche in questo!

Comunque da questa riflessione è nato il primo mattoncino del nostro progetto cioè “DA PERSONE A PROFILI” che ci ha aperto una panoramica molto più interessante della semplice verità o meno dei contenuti: la pratica stessa di pubblicarli… Dopotutto come disse T. Makiguchi “la verità non costituisce un valore in se stessa”.

Voi come vi sentite come brand?

Thought credit: Margherita Landi

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