Premio Speciale Nastri D'Argento
MUSIC

Per il secondo appuntamento di Street Opera, la voce avellinese parla della sua terra

Ghemon Poeta Ibrido della Rima

Scritto il 26/02/15 da Anya Baglioni

Spesso in ciò che si crea, si cerca di improntare un’immagine di se stessi.
Proprio nella parte creativa viene riversata tutta l’esperienza del vissuto, che si compone di più elementi.
Ovviamente esistono espressioni artistiche che si prestano più o meno a questa caratterizzazione.
In particolar modo in quest’epoca, l’hip hop è una cultura che è stata lentamente naturalizzata nel nostro paese e ha subito affondato le sue radici nelle nostre, concedendo una nuova e più diretta via per fregiarsi delle proprie origini.
Il rap emerge dai vicoli e quello che ne deriva quando la rima è pura e le parole sono grovigli di sensazioni, suoni e riflessione, è un’opera di strada.
È una musica che è specchio sia di chi la crea sia di chi ci si riconosce ascoltandola.
L’individuare se stessi in un pezzo rap può derivare da più caratteristiche, ma la più immediata che colpisce l’orecchio senza bisogno di attenzione è il modo in cui il testo viene pronunciato.
Magari una sfumatura, una cadenza, una marcatura, un’aspirazione o quando il legame con le radici è davvero una catena che inorgoglisce, allora si manifesta con il dialetto.
Ma la terra quanto può influire sull’aspetto formativo e creativo di un artista?
Nel momento in cui in un pezzo si riconosce la medesima inclinazione dialettale, allora quelle parole diventano possesso di chi ascolta e assumono un valore che si arroga il pregio di concedere parte della tua identità.

Sono omaggi alla terra, sono omaggi alle persone.

Eppure ci sono artisti che non sempre si riesce a collocare, perché dalla provincia si sono spostati non per perdere le proprie origini, ma per ampliarle e diventare cittadini del mondo.
É l’esempio di Ghemon che ripercorre la sua crescita in un posto in cui l’orgoglio del montanaro distingue Avellino, da qualsiasi altra città, «soprattutto da Salerno e Napoli» e si onora (solo adesso) di aver dato i natali al poeta dell’ibrido, cresciuto in un paio di pantaloni larghi.

«Quando tu sei entrato in contatto con il rap la prima volta stavi ad Avellino.
Come sei entrato in contatto con questa cultura e come ha risposto il territorio a questa innovazione culturale?»

«Ho conosciuto questa cosa grazie alla radio. Non c’era quasi nessun passaggio sul territorio: solo qualche tag, qualche pezzo. Per fortuna sono riuscito velocemente a mettere i pezzettini insieme, perché all’epoca non c’era internet, quindi per me i graffiti erano una cosa totalmente staccata dal pezzo rap che potevo sentire in radio. Quindi un po’ la radio, un po’ il mitico AL mi ha aiutato. Credo che all’inizio questa cosa mi sia piaciuta anche perché era un po’ solo mia, perché ovviamente non c’era nessuno. Quindi com’era accolta la cosa? Buh. Era accolta non come una cosa ridicola, ma che in realtà non era assolutamente penetrata a livello sociale da nessuna parte: ci si doveva riconoscere dal pantalone. Oggi è veramente una cosa difficile da spiegare a chi non l’ha vissuta. Forse i ragazzi delle estreme province un pochino, dei paesini piccoli riescono a capire che significa stare in una cittadina alla provincia dell’impero, senza sapere niente, dovendosi un po’ inventare le informazioni, andandosele a cercare nel negozietto di dischi, all’edicola, sull’articolo sul giornale magari anche sbagliato. Per quanto mi riguarda, magari c’era un articolo sui graffiti sul giornale di moto, non so neanche come dirti… Oggi è impossibile da spiegare e il fatto che fosse così, lo rendeva (come ti diranno tutti) più romantico, però agli occhi delle persone che mi stavano accanto, totalmente incomprensibile a livello territoriale. Forse a me ha dato anche la spinta per innamorarmi questa cosa, perché era un po’ una cosa nostra, ce la stavamo un pochino inventando. Soprattutto in quel momento là, ci piaceva anche non essere capiti.»

«Chi erano gli artisti che al tempo passavano in radio?»

«A caso, totalmente! Potevo già avere un’idea di cosa potesse essere il rap, perché era passato qualcosa di Jovanotti in radio e allora capivo qual era la differenza tra rappare e cantare. Ero un bambino: era il ’93, avevo dodici anni. Poi ho scoperto gli Articolo perché conducevano una trasmissione la sera del venerdì su Radio Deejay e da lì a pochi mesi passarono gli OTR in televisione. Sono tutte cose che non scoprivi da un giorno all’altro: passavano mesi all’inizio e solo dopo riuscivi a collegarle l’una con l’altra. Se avessi avuto diciott’anni sarebbe stato più facile reperire informazioni salendo su un autobus per Napoli; ma avevo dodici anni: dove cazzo andavo?»

«Come sei uscito da Avellino?»

«In realtà sono uscito subito perché non avendo niente, eravamo felicemente costretti a prendere le macchine di quelli più grandi e andare alle jam o organizzarle tramite passaparola: quello di Benevento lo diceva all’amico che faceva rap di Latina, che lo diceva al suo amico di Civitavecchia, che lo diceva al suo amico di Salerno e quella sera ti trovavi duecento persone che non sapevi neanche chi fossero. In quel momento ho iniziato a stringere rapporti con persone che erano tutte di fuori e più grandi di me. Quindi con grande disperazione dei miei genitori cominciai ad andare fuori di continuo, quasi scappando di casa. I miei amici di Avellino adesso cominciano a sapere qualcosa del rap per colpa mia che li ho costretti per venti anni a discussioni forzate. Mentalmente ho lasciato subito Avellino.»

«La tua terra ha influenzato la tua musica?»

«Sì, come spinte, come motivazioni, ma fino ad un certo punto perché il resto lo fanno le persone: le persone che erano scettiche, i miei amici che non mi capivano, che non mi supportavano, gli estranei che magari mi prendevano in giro per strada. Io non lo sopportavo: volevo essere preso sul serio da subito. Da quel punto di vista, mi ha influenzato di brutto. Un mio caro amico che dipingeva, la prima cosa (avellinese al 100%) che mi ha detto è stata: “Noi siamo di Avellino e quindi noi dobbiamo fare le nostre cose a modo nostro; non dobbiamo copiare nessuno, soprattutto quelli di Napoli e di Salerno. Anche se siamo pochi, facciamo con i pochi mezzi che abbiamo, piuttosto che stare all’ombra di qualcun altro o essere provinciali stando in una città piccola e pensando in piccolo”. Ovviamente questo era un discorso dato dal fatto che Napoli e Salerno essendo città più grandi, avevano già una scena affermata ed era facile ispirarsi a loro. Nonostante ciò, in questa frase ci ho ritrovato un po’ l’orgoglio dell’avellinese, del montanaro che mi ha portato ad essere sempre originale.»

«Quindi elementi che ti legassero particolarmente alla città non ne hai mai avuti?»

«Sì, ce l’ho: sono contento di venire da dove vengo, non l’ho mai negato. Poi c’è sempre la parte sportiva, l’aggregazione, ci tengo alle mie radici, però dall’altra parte non voglio essere considerato un provinciale. Sono comunque uno che è andato via di casa presto, che sa da dove è venuto e ci torna e porta sempre omaggio e rispetto alla sua città, però sono un cittadino del mondo. Ho cercato di aprire la testa.»

«Ampliando il territorio, l’Italia ti ha dato delle basi musicali su cui ispirarti?»

«Sì. Me le dà tutt’ora, nonostante che gli Stati Uniti me ne abbiano date di più.
Nonostante ciò ci sono state delle cose di rap italiano che mi hanno fatto pensare che anche io mi potevo distinguere.
Riguardo a questo devo dire anche che ad esempio: dal 1996 in poi, ho comprato tutti i dischi di Elio e Le Storie Tese. Questo lo dico perché appunto, io sono un super fan degli Elii (che io non cito mai) ed è musica italiana.»

«Noi abbiamo una cultura del melodico abbastanza importante. Secondo te, il rap di oggi si è completamente distaccato da questo background?»

«Ma basta che ascolti tre quarti dei ritornelli italiani che vanno in classifica (a parte il sottoscritto) per capire che quegli artisti ascoltano Sanremo: tanta cultura melodica e tantissima cultura di “canzonetta senza pensieri”.»

«Pensi che l’ascoltatore italiano si stia un po’ evolvendo da questo punto di vista o mantenga nei propri gusti questo modello culturale?»

«Internet sta aiutando molto. Se prima i network erano solo radio e televisione, decidendo quello che dovevi ascoltare, adesso abbiamo il web che è più democratico e quindi le persone cominciano ad essere un pochino più acculturate su tutta una serie di cose. Per il resto, la storia è ciclica, anche quella musicale: si tende a riproporre delle cose nello stesso modo, perché hanno sempre funzionato così e così funzionano (basta guardare i talent), però se ti focalizzi su tutti i sottofondi della musica italiana (indie, rock, rap…) vengono fuori anche delle cose che tra vent’anni magari saranno considerate valide. Ci vorrà tempo.»

«Quindi possiamo supporre un apprezzamento musicale da parte del pubblico italiano verso vie più sperimentali?»

«Il fatto stesso che il mio disco stia andando bene, me lo fa pensare. Lì, ho provato a proporre una formula mia che le persone potessero apprezzare e comprendere. È comunque un ibrido e solitamente quando presenti un prodotto come questo la gente va in panico. Per me il fatto che OrchiDee sia apprezzato è un buon segnale: vuol dire che una via di mezzo italiana, gli italiani la possono capire. Sul mio campione posso dire che c’è stata un’apertura, a livello più ampio ho qualche dubbio.»

Il primo passo per il cambiamento è compierlo in prima persona.
Ghemon lo ha fatto lasciando presto Avellino.
Street Opera lo ha fatto presentando le strade e i suoi figli.

Stay Gold.

Be your #streetopera.

Credits Top Photo: Filippo Leonardi

Anya Baglioni Autore

Anya Baglioni
Egocentrica con stile, creativa per necessità, public relator per vocazione, devota all'obiettivo e manager a tempo perso. Forse ho detto tutto.