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Cymbals Eat Guitars: ballate e distorsioni



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Originari di Staten Island, uno dei cinque borough della Grande Mela, i Cymbals Eat Guitars si formano nel 2007 quando Joseph D’Agostino e il compagno di studi Matthew Miller, cresciuti con la fissa della la musica alternativa degli anni ’90 (Wilco, Pavement, Bedhead, Trail of Dead) radunano una band formata da ex compagni di università e musicisti trovati via Craiglist. Suonano rispettivamente la chitarra e la batteria e scelgono di chiamarsi Cymbals Eat Guitars, come una vecchia frase di Lou Reed, utilizzata per spiegare il suono dei suoi Velvet Underground.
La line-up iniziale è destinata a mutare nel tempo e vedrà la figura di D’Agostino come l’unica presenza fissa.

Dopo il primo disco autoprodotto Why There Are Mountains, è Lenses Alien, loro opera seconda pubblicata nel 2011 dall’etichetta Memphis Industries, a farli conoscere al pubblico: un concentrato di schizzi pop e noir-wave, basati su tempi fratturati e su una propria elaborazione dell’immaginario shoegaze. Un suono molto apprezzato dagli addetti ai lavori che porta la band ad imbarcarsi in un tour americano con The Pains of Being Pure e The Flaming Lips.
La formazione nel frattempo ruota, cambia, e si arriva al loro terzo album LOSE , uscito nell’agosto del 2014, dopo una lunga e travagliata gestazione.

Guidati dal grande produttore John Agnello, che in passato ha amalgamato suoni di Sonic Youth, Dinosaur Jr, Screaming Trees, i Cymbals Eat Guitars partono dal suono dello shoegaze americano anni ’90, rielaborandolo e arrivando a una sperimentazione del noise che si intreccia con una nuova modalità di songwriting, decisamente più matura.

Proprio per presentare LOSE  li abbiamo trovati in splendida forma, sul palco de Il Covo Club di Bologna, lo scorso 16 gennaio, dopo la loro prima tappa italiana al Circolo Magnolia di Milano. Un tour impegnativo che li porterà tra le tante date anche nei clubs più underground di Parigi, Amsterdam, Berlino, Copenaghen, Oslo e li ricondurrà a Marzo in America, per far ripartire il tour d’oltreoceano da Phoenix, in Arizona.

Davanti al pubblico attento e scalpitante del Covo Club, i Cymbals eat Guitars hanno scaraventato energia allo stato puro: riverberi infiniti, distorsioni aggressive e poi più docili, una costruzione del suono complessa e  invidiabile, in cui la voce semi-urlata di D’Agostino fa da padrona, con tappeti di tastiere e synth che completano il tutto.

Quello che colpisce è la dinamicità tra i pezzi: dal brano Jackson, una ballata epica e azzeccatissima, che meglio si ricollega al disco precedente, posizionata metaforicamente all’inizio della scaletta (sia del disco che del live), si passa al pop in grande stile di Chambers, fino ai sali-scendi impetuosi di Laramie, una delle canzoni di punta, con una fantastica coda di pazzia shoegaze.

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L’effetto sorpresa di Lenses Alien è ovviamente smontato,  ma LOSE si distingue e incentra i propri testi, come suggerisce il titolo, sul tema della perdita: D’Agostino, porta avanti un lavoro di autoanalisi a tratti intimista, che non cade mai nel luogo comune.

I testi infatti sono diretti e strutturati, prendono spunto dalla vita vissuta, dalla malinconia dettata dalla perdita della spensieratezza. Sono testi graffianti che spesso rincorrono ritmi sparati a velocità ai limiti dell’hardcore, come nel caso di XR, un’anfetaminica dose di classico punk folk. ChambersLifeNet, rappresentano invece l’angolo più  indie-pop di LOSE, riportando ad una apparente leggerezza, mentre in Hip Soul, lenta ma violenta al tempo stesso, tutto si smorza sulle note emesse da un soave pianoforte, lo stesso che apriva Jackson.

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Una formazione in perfetto equilibrio sul palco, un disco eterogeneo, maliconico ma energico, che dona nuova linfa e nuovi spunti al rock alternativo di questi ultimi anni.