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ARTS

Scrivere, passeggiare, vagabondare…



Argini

Ogni espressione artistica muove – io credo – da un sentimento di naturalezza, di abbandono, di libertà. L’arte ha un’indole vagabonda: porta nelle sue forme il riflesso di un’esistenza nomade, i segni di un disorientamento quasi viscerale. Ecco perché, se è vero che il mio intento è quello di scrivere di letteratura, di fotografia, di poesia, di cinema, di pittura… – è necessario che io muova proprio da questo punto imprescindibile e essenziale: da quel necessario ma silenzioso istinto di dispersione che detta i confini – quasi infiniti – dell’arte. Non voglio propinare nessuna ‘manfrina’ filosofeggiante con toni appiccicosi da digressione pseudo-culturale. Solo un dettaglio, un quadretto, un flash che dia il senso del mio discorso. Eccolo: «La passeggiata», «Der Spaziergang», il racconto di Robert Walser che, con una splendida metafora narrativa, accosta la scrittura e la visione artistica all’andatura disinteressata della passeggiata. Dice Robert Walser mentre cammina nelle pagine del suo libriccino:

«In mezzo alla bella contrada, io pensavo solo ad essa; qualunque altro pensiero veniva meno. Guardavo attento a quanto c’era di più piccolo, di più modesto, mentre il cielo pareva inarcarsi alto e scendere profondo. La terra si faceva sogno; io stesso ero divenuto interiorità e procedevo come dentro di essa». E questo perché colui che passeggia – nella realtà, nella sua mente, su sentieri reali o evanescenti – deve studiare e osservare ogni minima cosa «sia essa un bambino, un cane, una zanzara, una farfalla, un passero, un verme, un fiore […]. Le cose più sublimi e le più umili, le più serie come le più allegre, sono per lui in egual misura care, belle e preziose».

 Scrivere è come passare, passeggiare, camminare nella la libera e svagata andatura di chi sa che non c’è nessun posto nel quale si debba necessariamente andare o far finta di andare, (tranne forse la morte?). Il passeggiatore e lo scrittore non conoscono una vera distanza tra mondo reale e mondo immaginato: esiste un solo grande terreno che abbraccia l’intera visione immaginosa della realtà e, all’interno di questo spazio immaginario, nessuna superstizione, nessun giudizio, né critica, né distacco sprezzante. Non c’è timore, in Walser, degli aspetti cerimoniali del reale. La mediocrità e la banalità della vita divengono oggetti privilegiati: lo scrittore è attratto dall’ovvietà del quotidiano perché in essa riconosce, prima di tutto, la sublime residenza di un tessuto collettivo, luogo fecondo di scambi, voci, notizie, pensieri da cui traggono origine i racconti. La scrittura e l’arte entrano in un terreno di ripetizioni, di cose già dette, di ricordi masticati e tramandati di voce in voce, digeriti e suggeriti da corpo a corpo: parole che si legano in una lunga catena di significati, che trovano posto e autenticità proprio nella loro eterna riproduzione. È così che si svela un fondo comune, sistema di echi e bagaglio indelebile di ogni coscienza. L’incanto di questo tessuto non sta nella veridicità, nella certezza dei dati, non risiede nella scienza della ragione, ma nel sapere fantastico della ripetizione infinita.