Scopri l'universo
espanso di Gold
Gold enterprise
Goldworld Logo
MA DICI A ME?
STORIES

Chi scrive le pagelle dei debiti?



Illustrazione di Giorgio Campani

Sembrano delle strane pagelline… Nelle scorse settimane avrai forse letto anche tu che la Francia ha perso la tripla A (la mitica AAA). E che l’Italia, colpita dal downgrade dell’agenzia di rating americana Standard & Poor’s, è passata alla serie B, con una bocciatura di ben due gradini (da A a BBB+). E che lunedì scorso l’agenzia Fitch ha declassato cinque nazioni europee (Italia inclusa, receduta sempre di due gradini, da A+ a A-). Così che in totale ben nove paesi dell’Eurozona si sono ritrovati a fare i conti con voti più bassi, voti che rischiano di far scappare gli investitori a gambe levate, minacciando di far schizzare verso percentuali da strozzinaggio gli interessi che queste nazioni devono pagare sui loro debiti di stato.

Tutto chiaro? Forse sì, forse no. D’altronde, il vocabolario della crisi è denso di termini misteriosi, la cui comprensione è però vitale se uno vuole capire davvero che cosa gli stà succedendo attorno. E allora: cosa significano parole come rating e downgrade? Che cosa indicano precisamente quelle lettere, che vanno dalla tripla A alla D? Ancora: chi c’è dietro a Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, quelle tre agenzie tanto temute, odiate e criticate, che con i loro voti sembrano decidere le sorti delle nazioni se non del mondo intero?

Iniziamo a rispondere con ordine. Per cominciare, se ancora non ti è chiara la dinamica del debito sovrano, ti invito a rileggere il mio articolo precedente, “Euro e Piigs, deficit e default: Verso la bancarotta di stato?”, dove ho iniziato appunto a spiegare il gergo della crisi. Il concetto base è comunque che i debiti non sono tutti uguali. Quando una famiglia, un’azienda o uno stato hanno bisogno di prendere dei soldi a prestito, coloro che glieli potrebbero dare, ovvero i potenziali creditori (altri individui, famiglie, banche o investitori istituzionali che siano), si chiederanno due cose. La prima è: Quanto mi posso fidare che alla fine di un certo periodo pattuito questo debitore sarà in grado di restituirmi la cifra che gli ho prestato? E la seconda è: Quanto ci guadagno? Ovvero che tasso di interesse posso ottenere in cambio del mio prestito?

Sui mercati, si sa, nessuno agisce per beneficienza, nessuno fa il buon Samaritano. E se fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. In gergo si parla quindi di merito creditizio. Se chi chiede soldi a prestito ha un buon reddito, un solido bilancio, e una storia di debiti che sono stati ripagati puntualmente, il suo merito creditizio sarà alto, indicando a chi volesse prestargli dei quattrini che rischia poco. Nel caso contrario, ovvero di qualcuno che invece guadagna poco, è già molto indebitato, e che magari fa già fatica a ripagare i soldi che ha preso a prestito in precedenza, il merito creditizio sarà basso, indicando a chi fosse tentato di prestargli altri soldi che corre il rischio di non riceverli più indietro.

Il tasso d’interesse che si applica ad un prestito è direttamente proporzionale a questo rischio. Infatti, se un’individuo, un’azienda o uno stato viene considerato affidabile (merito creditizio alto) ci saranno molti operatori disposti a prestargli quattrini, accontentandosi anche di un guadagno modesto, visto che sanno di rischiare poco. Ma nel caso contrario (merito creditizio basso) sarà molto più difficile trovare qualcuno disposto ad aprire i cordoni della borsa, a meno che il debitore non alletti degli speculatori con la promessa di un rendimento (tasso di interesse) tanto alto da controbilanciare il rischio di perdere tutto.

Tutto questo, se lo caliamo nella cruda realtà del debito pubblico europeo, spiega perchè c’è uno spread (differenziale) ormai considerevole fra i tassi d’interesse dei titoli di stato tedeschi e quelli italiani. La Germania può finanziare i suoi debiti a tassi estremamente bassi perchè viene considerata affidabile. L’Italia, invece, che ha conti pubblici davvero disastrati ed è piena di debiti, quando chiede soldi al mercato è costretta ad offrire tassi più alti, proprio perché gli investitori di tutto il mondo non sono più tanto sicuri che sarà in grado di ripagare i capitali che le hanno prestato.


Illustrazione di Giorgio Campani

Ma chi stabilisce che l’Italia o la Germania sono più o meno affidabili? Sono proprio loro, le agenzie di rating. Il loro mestiere è infatti quello di misurare la fiducia o la sfiducia (o se preferisci il grado di affidabilità, o il merito creditizio, che in questo caso sono tutti sinonimi) delle aziende e dei paesi che emettono titoli di debito. Questo giudizio viene espresso in un voto (il rating, appunto), che parte dalla tripla A (ovvero massima fiducia) e scende fino all’odiata D, lettera che sancisce l’impossibilità del debitore di onorare i propri impegni (il cosidetto default, che è una maniera più diplomatica per dire fallimento o bancarotta).

La ragione per cui le agenzie di rating sono così temute a questo punto dovrebbe essere chiara. Ogni volta che S&P, Moody’s e Fitch abbassano il loro giudizio su un debitore (un’operazione chiamata downgrade) quello rischierà di vedere balzare verso l’alto i tassi d’interesse che deve pagare, cosa che alla lunga rischia di strangolarlo in una spirale di costi sempre maggiori e di farlo fallire davvero. Ovvio quindi che molti politici, dopo aver accumulato debiti pubblici colossali, tendano ad odiare questi istituti che loro non possono controllare e che allertano i mercati dei pericoli che loro stessi hanno creato.

Contro le agenzie di rating sono state espresse però anche critiche molto più serie. L’accusa è duplice. Da una parte questi “grandi giudici” del mercato hanno attributo in passato valutazioni solide a colossi che poi hanno fatto crack, minacciando addirittura la stabilità dell’intera finanza globale (il caso più clamoroso è stato quello della banca d’affari americana Lehman Brothers, che fino al momento della sua implosione poteva vantare un rating di massima affidabilità). Se loro hanno sbagliato tutto in quei casi, chi può garantire che oggi siano in grado di valutare correttamente la salute finanziaria di intere nazioni?

Tra i critici delle agenzie di rating c’è il premio Nobel dell’Economia Paul Krugman, che si è espresso così: “È difficile pensare a qualcuno che sia meno qualificato nel dare giudizi all’America delle agenzie di rating”. E David Wyss, responsabile della ricerca economica presso S&P fino al luglio del 2011, dunque un ex insider, che nel corso di una intervista scioccante è arrivato addirittura a dichiarare: “Le agenzie di rating non sanno nulla di più sui conti dei governi (che esaminano) di chi legge i giornali per strada”.

L’altra accusa risiede nella presenza di varie forme di conflitto d’interesse. S&P’s, Moody’s e Fitch, ad esempio, quando esprimono giudizi sulle obbligazioni che determinate società emettono per finanziarsi, sono pagate per quel lavoro di valutazione dalle aziende stesse. Come possono essere quindi realmente obiettive nei loro giudizi, visto che li forniscono in cambio di denaro? Ciliegina sulla torta: come se non bastasse le tre maggiori agenzie di rating sono controllate da fondi di investimento e società di gestione, ovvero da operatori di mercato che investono negli stessi titoli su cui loro esprimono valutazioni.

Questi azionisti sono in gran parte americani, cosa che quando si parla del downgrade della nazioni europee alimenta fra certi commentatori la tesi di un complotto degli Stati Uniti contro l’euro. Standard & Poor’s, ad esempio, è controllata da alcune delle società più potenti della finanza Usa, come State Street (che gestisce circa il 40% dei fondi negli Stati Uniti e il 37% dei fondi pensione) e BlackRock (la più grande società d’investimento del mondo). Il primo azionista di Moody’s è invece Warren Buffett, uno degli investitori più osannati e famosi degli Stati Uniti, con la sua società Bershire Hathaway. Capital World Investment, un’altra delle principali società di gestione del risparmio in America, è azionista sia di S&P che di Moody’s (dove riappaiono anche State Street e BlackRock).

L’apparente egemonia di Wall Street comincia però ad incrinarsi quando si prende in considerazione la più piccola delle tre agenzie: Fitch. Il suo azionista di maggioranza (con il 60% del capitale) è infatti Fimalac che ha sede a Parigi (il restante 40% del capitale è nelle mani dell’americana Hearst Corporation). Si può dire allora che Fitch difende gli interessi dei poteri forti francesi? Non proprio, visto che lo scorso 20 dicembre ha bocciato da “stabile” a “negativo” l’outlook di quattro importanti banche d’oltralpe, ovvero Société Générale, Dexia Credit Local, Groupe BPCE e La Banque Postale. Così come la sua rivale americana Standard & Poor’s, ben prima di declassare il debito pubblico di molti stati europei, aveva fatto esattamente la stessa cosa con quello degli Stati Uniti.

E allora? Come la mettiamo? La risposta è pirandelliana: la stessa realtà ha diverse sfaccettature. Sparare sentenze sommarie su questi istituti a mio avviso è riduttivo. Se davvero vogliamo capire come stanno le cose è invece utile leggere che cosa dicono. Ad esempio, nel comunicato con cui S&P ha giustificato la sua recente raffica di downgrade del debito sovrano di nove nazioni europee, l’agenzia sostiene che i governi hanno adottato “misure insufficienti per affrontare con forza i problemi finanziari dell’Eurozona”. Sul nostro paese: “La valutazione sull’Italia è appesantita da un elevato debito pubblico e da deboli potenziali di crescita”.

Ebbene: dov’è l’ingiustizia? Più che una sentenza da fa gridare allo scandalo, a me pare la famosa scoperta dell’acqua calda. O, al più, la conferma dell’immobilismo europeo. Non è forse vero che gli stessi cittadini del nostro continente non ne possono più di vedere infiniti tappeti rossi che si srotolano per accogliere i loro leader all’ennesimo meeting? E quali sono le soluzioni che quelli sfornano al termine di nottate di febbrili consultazioni? È forse ciò che gli esperti di tutto il mondo ci chiedono, ovvero una Banca centrale europea con il potere di intervenire direttamente sui mercati, acquistando i titoli di stato più vulnerabili, in modo da far calare i tassi d’interesse? No. È per caso una visione unitaria su come agire per recuperare la fiducia degli investitori? No.

Insomma, è vero che le agenzie di rating hanno commesso gravi errori in passato. Ma noi pensiamo davvero che l’Italia – e più in generale l’Europa – possa meritarsi un giudizio migliore? E perché nessuno ha urlato allo scandalo quando l’agenzia di rating cinese Dagong ha rivisto al ribasso, agli inizi di dicembre, la valutazione del debito pubblico italiano, declassandolo da A- a BBB? Che interesse potrebbero avere i cinesi a puntare sullo sfascio dell’euro, cosa che farebbe solo il gioco del dollaro americano?


Illustrazione di Giorgio Campani

Chi accusa le agenzie di rating di non essere obiettive, chi sostiene che c’è un complotto della finanza anglosassone contro l’euro, cita sempre il caso degli Stati Uniti, un paese che ha accumulato un debito pubblico da brivido, che oggi supera di gran lunga la soglia dei 15.000 miliardi di dollari. Perché Moody’s e Fitch continuano a dargli il massimo rating con la tripla A? Idem per il Regno Unito, nazione che vive una fase economica peggiore ed ha un deficit maggiore della Francia, oltre che un settore privato altamente indebitato. Perché secondo le agenzie di rating Londra merita la tripla A e Parigi no? Non è assurdo?

La risposta – come ha spiegato fra gli altri Alen Mattich sul Wall Street Journal – non è poi così complicata. Stati Uniti e Regno Unito hanno maggiori possibilità di riuscire a superare la crisi perché hanno una loro moneta e una loro banca centrale. Tanto la Federal Reserve quanto la Bank of England hanno dimostrato di essere disposte a tutto pur di continuare ad erogare liquidità alle banche e quindi all’intero sistema paese. Aumentare la liquidità (che poi vuol dire stampare più banconote) stimola la ripresa della crescita economica (perchè più denaro c’è in circolazione e più fondi sono disponibili per investimenti e consumi).

Su questo fronte, invece, i paesi dell’eurozona non sono più liberi di agire come gli pare, perchè hanno delegato il potere di stampare moneta alla Banca centrale europea. E se cercano di muoversi tutti assieme? Devono fare i conti con la Germania, che di aumentare la liquidità non ne vuole sapere, perchè resta terrorizzata dal rischio in questo modo possa aumentare anche l’inflazione. Questo timore ha delle ragioni storiche (fu proprio l’aumento incontrollato dei prezzi a distruggere l’economia tedesca negli anni ’30, favorendo l’ascesa dei nazisti al potere). Ma se la Bce ha le mani legate, e non può aiutare i paesi in difficoltà con atti concreti, mentre la Germania gli impone di adottare misure di austerity sempre più severe per rientrare dal deficit, il vero rischio è che le economie ricadano nella recessione, con il risultato che il debito invece di scendere sale.

Per capire meglio questa situazione basta pensare a una famiglia che ha fatto un mutuo. Se il reddito di quella famiglia aumenta, pagare le rate del mutuo sarà sempre più facile, perchè ci saranno più soldi a disposizione, anche dopo tutte le altre spese mensili. Ma se invece il reddito scende, perchè magari qualcuno ha perso il lavoro o gli è stato tagliato lo stipendio, quello stesso mutuo diventerà in proporzione molto più oneroso, con il rischio che la famiglia non ce la faccia proprio a trovare le risorse per coprire le nuove rate in scadenza.

Ecco: secondo il Fondo monetario internazionale l’economia degli Stati Uniti crescerà nel 2012 dell’1,8%. Questo è sufficiente per prevedere che l’America avrà maggiori possibilità di risanare il suo pur mostruoso debito pubblico, visto che se il prodotto interno lordo sale, il rapporto fra quello e il debito scende. Cosa succederà invece in Italia? Secondo l’Fmi la nostra economia dovrebbe contrarsi quest’anno del 2,2%. L’economia dell’eurozona nel suo insieme dovrebbe scendere dello 0,5%. Torniamo allora alla matematica: uno degli indicatori chiave che S&P, Moody’s e Fitch tengono in considerazione per calcolare i loro giudizi è proprio il rapporto fra debito e Pil. Quindi, chi ha la migliore probabilità nel 2012 di migliorare i conti e ridurre i debiti? L’eurozona o gli Stati Uniti? La risposta è ovvia, no?

Altri indizi: secondo i dati del colosso della consulenza McKensey, il debito del settore finanziario Usa è sceso da 8.000 miliardi di dollari all’inizio della crisi a 6.100 miliardi oggi (un valore pari al 40% del Pil, lo stesso del 2000). Il debito delle famiglie è poi diminuito di 584 miliardi di dollari, o del 15%, rispetto al reddito disponibile. Insomma, miglioramenti ci sono. E quello che interessa alle agenzie di rating non è tanto la situazione attuale, ma come questa è destinata a evolversi. Chi insiste nel sostenere che i giudizi delle tre big del rating sono pilotati dovrebbe leggere una recente nota dell’agenzia cinese Dagong, dove viene pronosticato che il carico del debito dei paesi avanzati del mondo, e dell’Europa in particolare, nel 2012 diventerà “ancora più insostenibile”, con il rischio che si scateni una crisi valutaria. Dagong afferma di temere un crollo “della credibilità dell’euro, che porterà inevitabilmente a un forte sell off sulla moneta, a causa del collasso della fiducia esterna”.

Dunque, che siano controllate da americani, francesi o cinesi, le agenzie di rating tendono a raggiungere le stesse conclusioni. Anzi, quello che ci dicono oggi sull’Europa è talmente scontato e banale che neanche i mercati ne sono rimasti particolarmente turbati, tanto che dopo la raffica di downgrade di S&P sul debito sovrano europeo non c’è stato alcun crollo sulle piazze finanziarie. Invece di rifugiarsi nel vittimismo, i nostri politici e i vari commissari europei dovrebbero farsi un bell’esame di coscienza. Iniziando magari a pensare che oltre all’austerity e ai tagli esistono anche un’altre parole. Come crescita. E pragmatismo. Ecco che cosa ha salvato l’America. E cosa manca al nostro continente per superare la crisi.