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Cinema

SisterHood. Intervista a Domiziana De Fulvio



Cinema, Basket, Femminismo in un viaggio internazionale. Domiziana De Fulvio mi ha raccontato il suo ultimo lavoro, SisterHood. Una finestra su un viaggio, attraverso il basket giocato dal basso, fra le storie di alcune giocatrici tra Beirut, Roma e New York. Uno spaccato potente in SisterHood, di una sorellanza che apre spazi di liberazione. Dal campo di Shatila fino alla New York del 2023, passando per le esperienze femministe della Snia di Roma. Tutto questo è SisterHood.

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SisterHood a New York

Le origini

Ciao Domiziana, se ti va ti chiedo di presentarti a chi ci leggerà su Gold, per rompere il ghiaccio!

Sono cresciuta e mi sono formata in vari quartieri di Roma, e anche con una parentesi campestre che ha tirato fuori un mio lato bucolico ;). San Lorenzo è la casa madre, Talenti, il Tufello, Montesacro e il Quadraro dove sono iniziati certi percorsi e dove c’è un pezzo di cuore, c’è anche Monteverde (il Manara) e Trastevere. Solo per citare alcune zone, insomma Roma con il motorino l’attraversavo da parte a parte (cit.).   

Credo che tu non sia estranea al mondo dell’Hip Hop, i nostri amici in comune su Instagram sono tutti writers!

Le bombolette che ti cadono per sbaglio in testa lasciano cicatrici in fronte che non scompaiono. Come i fratelli, la famiglia con cui sei cresciuta, con cui si è condiviso tanto, dal deposito degli arancioni a…tante altre storie…anche se poi le vite prendono altre strade e ci si ritrova principalmente a parlare online, quando prima ci si comunicava con una scritta, anche piccola, sul muro. Se la vedevi sotto casa tua voleva dire che erano passati lì ed era un modo per farti un saluto, ora ti taggano in una foto su Instragram. Momento amarcord.  Anche per la locandina di Sisterhood hanno collaborato delle realtà importanti della scena romana come il Wies e HB. E anche la rapper londinese Oracy con il pezzo finale del documentario creato appositamente per questo.

Il lavoro come documentarista

Il progetto nasce da un punto di vista personale. La cultura di strada, che ha contribuito alla mia formazione tra film, arte e vita vera, ha suscitato in me l’interesse verso i vari aspetti dell’aggregazione dei gruppi femminili. Vivendo in prima persona l’inizio di un’attività sportiva in età adulta ho trovato interessante ricercare delle affinità, dei punti di unione con le altre realtà che ho incontrato. Così, prima di iniziare a filmare le donne protagoniste, ho avuto l’occasione di conoscerle sul campo di gioco. Dopo aver trascorso del tempo insieme ho sentito la necessità di girare questo documentario, volevo farle conoscere tra loro, farle confrontare, confrontarci. Ho voluto tirar fuori tutta la forza della parola “Sista”. Prima di Sisterhood non avevo mai girato nulla da regista, è stata un’esperienza difficile, immersiva e collettiva!

Come vi siete messe in contatto con le realtà protagoniste delle tre città?

Con la squadra di Roma ho iniziato a giocare grazie ad una amica e lì è stato amore a prima vista con questo sport e con il gruppo che mi ha accolta; ho poi conosciuto le ragazze palestinesi e libanesi tramite un progetto che si chiama Basket Beats Borders di Daniele Bonifazi e David Ruggini, attivisti di Un ponte per. Grazie al progetto BBB, per due anni di seguito le ragazze palestinesi sono venute per un breve soggiorno a Roma, al campo dell’ex Snia dove insieme alle ragazze dell’Atletico San Lorenzo e ai ragazzi dell’All Reds Basketball abbiamo passato delle giornate tutt* insieme. Approfondendo la conoscenza con le giovani, sono rimasta affascinata dalla loro esperienza e ho maturato l’ipotesi di raccontare le loro storie. Nel frattempo, però, ho vinto una borsa di studio che mi ha portata a New York. Ed è stato qui che ho conosciuto le Ladies Who Hoop e ho cominciato a capire che, anche a migliaia di chilometri di distanza, c’erano affinità (ma anche divergenze) tra le esperienze.

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La Snia di Roma, casa delle Les Bulles Fatales

SisterHood a New York

Entriamo nel dettaglio. La prima di cui ti chiederei è New York. Ti butto lì la mia impressione: mi sembra una fotografia anzitutto della classe lavoratrice femminile new-yorkese e ho visto il basket come spazio di liberazione sia per le giocatrici, in una tradizione raccontata al maschile (prendi il documentario di Bobbito Garcìa, Doin’ it in the Park) ma anche spazio liberato in una città super-gentrificata.

Purtroppo non ho visto il documentario che citi 🙁

Ora mi hai incuriosita e cercherò di vederlo al più presto! La sorellanza descritta da Mo all’inizio del film fa riferimento a quella che è la sua cultura afroamericana. Ma è anche quella su cui ho voluto far luce con il mio lavoro: la sorellanza come modello di famiglia. spesso si trovano sorelle o fratelli anche al di fuori dei vincoli di sangue o genetici. La famiglia può essere anche tutta quella comunità di persone che ci creiamo intorno e con cui stiamo bene. Non è raro che le amiche diventino come sorelle: nascono con loro relazioni profonde dettate dalle affinità, dagli interessi intellettivi e dalle lotte condivise sul lavoro e/o in altri contesti. È difficile capire anche fra chi lo studia, e forse è anche poco importante, se la gentrificazione sia nata prima a Londra, a Chicago o a New York. Però una cosa è certa nella grande Mela tutto è più grande, tutto è più particolare, tutto è americano e internazionale allo stesso tempo, e se una cosa succede lì succederà ovunque. New York le ha sperimentate tutte le gentrificazioni, quelle dei colletti bianchi, quella degli imprenditori, quella delle e fra comunità etniche (come si chiamano tra di loro), quelle degli artisti. Adesso sembra non conoscere ostacoli quella della creatività, poi sono quattro anni che non ci vado potrebbero essere già ulteriormente cambiate le cose ma sicuramente la caccia al povero all’emaginato, che è il mantra con cui si affrontano tutti i cambiamenti urbani dai tempi di Rudolph Giuliani, sarà uguale se non peggio, se non a livello istituzionale quanto meno a livello sociale. Consiglio di vedere Not in my neighbourhood di Kurt Orderson.  Riporto anche una frase, breve ma calzante, di un discorso che fece Spike Lee sull’argomento:

“Ed ecco che arriva la cazzo di Sindrome di Cristoforo Colombo. Non potete scoprirci! Eravamo già qui”.

Tra l’altro sul tema si parla anche nel suo bellissimo film Do The Right Thing (1989).

SisterHood a Roma

Per Roma mi verrebbe da rivolgerti la stessa domanda ma con i nomi delle città semplicemente cambiati!

A Roma è stata più subdola la gentrificazione, più legata a fenomeni definiti culturali che hanno fatto da volano per il cambio di volto dei quartieri. Essendo Roma una città dove è quasi impossibile distruggere per edificare visti i tanti vincoli architettonici, archeologici e paesaggistici. Ma per il resto questo processo porta ovunque le stesse cose: aumento degli affitti, la richiesta e l’intensificazione di polizia in giro per i quartieri, la nascita di nuove attività commerciali dove si può bere e mangiare, magari anche cibo buono e di qualità, ma dove sono tutte le altre attività culturali che dovrebbe offrire un quartiere? E così facendo si perde sempre più il ritrovarsi per strada. E la sorellanza, in una città come Roma, si sviluppa soprattutto in certi contesti. Fra compagne, principalmente, nella lotta al sessismo, al patriarcato, alla violenza degli uomini contro le donne.

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A Roma, al campo davanti al Colosseo

SisterHood a Shatila

Arriviamo a Shatila. Situazione iper-complessa. Qui lo spazio “safe” mi è parso di liberazione proprio perché protetto grazie al basket, in uno dei luoghi più attraversati dalla “diaspora palestinese”. Se ti va su questo ti chiederei tanto la tua opinione quanto la vostra esperienza personale sul campo.

Andare a Shatila è stata forte per me e per i miei compagni di viaggio Nicolò Biarese (dop) e Michal Kuligoeski (suono). Conosci la storia del campo ma quando arrivi lì è un’altra cosa e ti rendi conto di…come dici tu, la situazione è iper-complessa ed estremamente drammatica. Israele quotidianamente effettua carneficine, pochi giorni fa a Jenin, ma sui media mainstream leggiamo solo le notizie di quando qualche palestinese compie un attentato a Tel Aviv. Nel campo di Shatila ci sono profughi/e da 50-60 anni, ci sono persone, come le ragazze che vedi nel documentario, che non hanno mai visto la Palestina e che non la vedranno mai, come non vedranno mai molti dei loro parenti e di amici e amiche dei loro genitori. A queste persone non vengono dati i documenti e viene negata loro la possibilità di compiere determinati studi o semplicemente di lavorare per mantenere loro e le loro famiglie. Perché a Beirut e in Libano vige lo stigma sociale legato proprio all’essere palestinese. Per loro lo sport, e quello che hanno creato grazie a BBB, non solo è uno spazio “safe” e di evasione ma è anche quello, che ad ora, gli permette di viaggiare, conoscere nuove realtà e ritagliarsi dei momenti di “normalità”.

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SisterHood a Shatila
Avete incontrato altre organizzazioni come Basket Beats Borders?

No, non mi è capitato, speriamo ce ne siano delle altre e che Basket Beats Borders continui con le sue iniziative!


Questa è la chiacchierata che ho avuto modo di fare con Domiziana, che vorrei ringraziare per la disponibilità e la gentilezza con cui mi ha immediatamente aperto la porta. Per me questo documentario è un racconto potente, un immaginario molto proficuo e un esempio di come l’approccio intersezionale possa applicarsi all’arte.

Ci vediamo alle prossime presentazioni del film! Portate la palla da basket!