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Cinema

Freaks Out



L’altro giorno ho letto un commento su Facebook che diceva più o meno una cosa tipo: “Dimmi che questo non è il solito film in cui tutti gli attori parlano con l’accento romano però con un budget più grosso”.
Poi vabbè, nella masnada di risposte non so dirvi se fossero più fastidiosi quelli che difendevano i film in dialetto romanesco a spada tratta o quelli che ci tenevano a farci sapere che invece no; far dire “mortacci tua” agli attori è mancanza di inventiva.

Riflettendoci, effettivamente “un film con un grosso budget in cui tutti gli attori parlano con l’accento romano” non è un modo sbagliato, per definirlo. Un altro modo per definirlo è un film in cui un regista ha scritto una sceneggiatura concentrandosi su dei personaggi veri ma finti. L’ha ambientato in un contesto storico ben definito ma distopico; e ha speso benissimo i soldi che aveva a disposizione ma senza esagerare coi botti. Infine ci ha messo comunque la sua cifra stilistica, riconoscibile, sì; ma che non ti fa necessariamente dire “ecco, ha fatto lo stesso film dell’altra volta.”

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Ho notato che noi italiani con i film nostrani siamo ipercritici: non ci va mai bene niente; perché, secondo questa forma mentis, il confronto comunque non regge, se vai al cinema oltreoceano. Questo genera, quando escono film come “Freaks Out”, una caterva di opinioni estreme, sia da un lato che dall’altro.
“Geniale” “Megagalattico” “Stupefacente” contro “Paraculo” “Sì, vuoi copiare gli americani, abbiamo capito”; “Vabbè, in un film basta che ci metti i nazisti e hai vinto”.

“Freaks Out”

Se però ci si ferma un attimo ad analizzare il film senza cadere nel pregiudizio o nel fomento da lanciafiamme di Leonardo di Caprio vs gli hippy; si nota innanzitutto come in “Freaks Out” ci sia una volontà ben precisa di raccontare un capitolo tragico della storia. Sia tramite una serie di tragedie parallele personali (tutti i personaggi, antagonisti e protagonisti, comprimari e comparse, sono degli emarginati); sia tramite un paradosso abbastanza evidente.

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Nel periodo del rastrellamento dei ghetti infatti, ci si aspetterebbe che un gruppo come quello dei protagonisti fosse il primo a subire la deportazione, in quanto strani, diversi, probabilmente pericolosi. Mentre invece i quattro rimangono sullo sfondo di intere famiglie caricate sui camion dei nazisti, e vengono presi di mira quasi per caso. Oltretutto, durante tutto il corso del film nessuno sembra stupirsi più di tanto delle loro abilità e caratteristiche.

Riassumendo: se volessimo analizzare tutti i temi trattati in “Freaks Out” staremmo qui fino a domani.
Mi limito a fare due osservazioni forse non così banali, che, dal mio punto di vista, lo rendono un film assolutamente degno di nota.

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La prima è un plauso all’arte del furto: mi vengono in mente almeno cinque film che sono citati nello stile e nelle tematiche; ma quando un disegno non è una copia sbiadita fatta con la carta carbone, ma diventa una reinterpretazione di quello che ci ricordiamo a mente, eseguita peraltro nel nostro stile, per me vale quanto un’idea originale. Ci risparmia strizzate d’occhio a prodotti notissimi che avremmo potuto sgamare in tre secondi e forse ci avrebbero anche dato fastidio.

La seconda osservazione ha valenza meramente estetica: vale la pena farvi notare che la sequenza degli ebrei che vengono fatti salire sui camion è stata con altissima probabilità ripresa dalle foto che trovate in rete, ovunque; che raccontano i rastrellamenti del ghetto di Roma e di Varsavia.

E non a caso vengono utilizzate immagini reali (come fece Spielberg con le foto di Robert Capa per “Salvate il Soldato Ryan”), perché quello è un momento cruciale; in cui vuoi o non vuoi ti trovi a pensare che sì, stai vedendo un film in cui c’è uno che apostrofa gli insetti chiamandoli “rega’”, però intanto tutti quei disgraziati sui treni per Birkenau ce li hanno fatti salire per davvero.

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La trama del film non ve la racconto, tanto la sapete già.


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