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Some killer, some filler – Bohemian Rapsody



Nell’ormai lontano 2001, la pop-punk band canadese Sum 41 fece uscire il suo primo album da studio, intitolandolo “All Killer, No Filler” con una certa tracotanza.

Esattamente come nel mondo degli Anime, anche nel mondo della musica un “filler” è, in maniera abbastanza letterale, un riempitivo. Qualcosa, cioè, che serva a fare massa in un album e che faccia da ponte, spesso nemmeno troppo percorso, fra un singolo di successo e l’altro.

E a questo punto mi sembra di avervi davanti, con le vostre faccette perplesse, mentre dite: “che cazzo c’entra ‘sta roba con il film?“.

Beh, innanzitutto è un biopic musicale, quindi iniziare con un fattarello della stessa pasta mi sembrava una buona idea, secondo…Bohemian Rhapsody (2018, regia di Bryan Singer ma anche un po’ di Dexter Fletcher) è esattamente il contrario di quanto i Sum41 volessero esprimere con quel titolo un po’ cazzone e molto presuntuoso: Bohemian Rhapsody è un ottimo album pieno di filler.

Perennemente in bilico fra l’agiografico e il descrittivo, il film -forse anche a causa della sua travagliatissima storia produttiva- sembra non trovare mai il giusto equilibrio fra la storia di Freddie e quella del resto della band.

La pellicola si prende numerosissime libertà, andando a ricostruire una successione degli eventi in larga parte non attinente alla realtà; a volte in maniera prevedibile e giustificabile, come quando si inventa di sana pianta l’evento scatenante che ha portato Freddie ad unirsi a May e Taylor nella primissima formazione dei Queen (che all’epoca si chiamavano ancora Smile) che, per quanto inesatta, serve a dar vita ad un ovvio cliché da biopic musicale.

A volte invece queste libertà narrative sono, o del tutto ingiustificate (la nascita di “We Will Rock You” spostata all’inizio degli anni ’80 quando il pezzo era già presente in News Of The World nel 1977…boh) oppure piuttosto meschine, come nel finale in cui Freddie rivela agli altri Queen di avere contratto il virus HIV poche ore prima del Live Aid del 1984; rivelazione alla quale segue una scena sinceramente commovente ma creata ad arte per spremere qualche lacrima dal pubblico (Mercury scoprì la malattia solo nel 1987).

Questi sono solo due esempi di inesattezze, ma non spiegano a fondo il concetto di “filler” da me evocato all’inizio del pezzo.

Bohemian Rapsdoy è un film che procede a strattoni, in cui le parti dedicate alla vita del suo protagonista (o almeno, quello che sulla carta dovrebbe essere il protagonista) sono troppo spesso “addomesticate” oppure intervallate da ampie sezioni in cui, se non si stesse parlando del più grande frontman della storia del Rock, Mercury scomparirebbe all’interno della leggendaria band di cui ha fatto parte per quasi due decadi.

Non fraintendetemi, pagherei con immensa gioia un biglietto per sedermi in sala a vedere un biopic sui Queen, sia chiaro. Il problema di questo biopic è che è stato venduto come un film su Mercury.

Capisco anche perfettamente la fisiologica imprescindibilità del resto della band dal suo cantante, ma avrei voluto che l’ago della bilancia narrativa pendesse con maggiore decisione verso il racconto della vita del fu Farrokh Bulsara e che ci fosse più coraggio da parte degli autori nell’affrontare gli aspetti meno conosciuti della vita del cantante.

Dal punto di vista recitativo, il film è completamente nelle mani di Rami Malek. L’attore, californiano di origini egiziane, si trasforma completamente e “indossa” la fisicità di Mercury in modo straordinariamente impeccabile; non si limita ad imitarlo, ne afferra l’essenza teatrale e contorsionistica e la ripropone con fedeltà e rispetto.

Non mi stupirei se, nonostante il rapporto altalenante della pellicola con la critica mondiale, a Malek arrivasse una candidatura ai prossimi Oscar.

Anche il resto del cast propone un lavoro egregio, sia per somiglianza che per presenza scenica, con l’ironica ciliegina sulla torta di un Mike Myers nei panni di un personaggio non esistente nella realtà, ma che và a personificare la summa delle critiche ricevute dalla band riguardo la volontà di rendere la canzone che dà il titolo al film un singolo.

All’epoca nessuna radio voleva passare un pezzo di 6 minuti in cui si volava dall’hard rock all’operetta e in cui si citavano personaggi come Belzebù, Galileo e Figaro; non capendo di trovarsi di fronte ad una delle creazioni musicali più alte che mente umana abbia mai partorito e, scavando ancora più in profondità, ad una struggente dichiarazione d’intenti del suo geniale autore.

Il personaggio di Myers arriva a pronunciare una frase, spassosissima per noi spettatori, che suona più o meno come: “non ci saranno mai ragazzini che, ascoltando “Bohemian Rhapsody” in macchina, alzeranno il volume e muoveranno le teste!“.

Adorabile.

In definitiva, la pellicola dedicata al genio parsi scomparso nel 1991 e alla sua epopea musicale ed umana è un piacevole insieme di hit and miss, dove la monumentale figura di Mercury spicca per il suo essere…Freddie Mercury e non per chiare scelte registiche ed autoriali.

Vale comunque la pena di sedersi in una sala buia per guardare il film, perché se non altro, una volta usciti, non vedrete l’ora di salire in macchina per dare torto, ancora una volta, al personaggio interpretato da Mike Myers.

VOTO: 6,5