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Petey, we’re home. Il ritorno di Spider-Man in casa Marvel



Cito da wikipedia: “Il monumento a Washington è un obelisco di marmo, eretto a Washington DC per commemorare George Washington, padre fondatore e primo presidente degli Stati Uniti d’America”
.

Quello che l’esaustiva pagina dell’enciclopedia libera più famosa del Pianeta non dice però, è che il monumento è stato probabilmente costruito sfruttando la fatica e il sangue degli schiavi pre-Guerra Civile (e anche se la cosa è tutt’ora dibattuta è certo che il marmo di cui è in parte composto, per i primi 45 metri, è stato estratto da cave nelle quali lavoravano gli schiavi e che buona parte delle generose donazioni che fecero progredire i lavori vennero dalle tasche dei ricchi latifondisti del Sud, che costruirono le loro fortune sulla pelle e sul sangue degli schiavi neri).

Wow, Matteo! Che sfoggio di cultura storica, tu si che hai studiato.


E invece no, queste cose le ignoravo bellamente.

Almeno fino a ieri notte, quando, di ritorno dalla visione di Spiderman Homecoming, ho cercato su Google la storia del gigantesco obelisco alla sommità del quale si svolge una delle sequenze più spettacolari del film.


Già perché nell’introduzione della suddetta scena assistiamo ad uno spassoso scambio di battute fra la Michelle della rivelazione Zendaya e il goffo professore che accompagna Peter e gli altri nella capitale per una gara culturale.
L’intrigante e ribelle compagna di classe del nostro supereroe preferito afferma infatti che non ha nessuna intenzione di salire sul monumento per celebrare qualcosa costruito col sangue degli schiavi, affermazione alla quale il professore risponde negando in modo imbarazzato, per poi essere immediatamente sbugiardato da una guardia (afroamericana) che stava assistendo al siparietto.

Nel 2017 milioni di teenager americani e stranieri hanno potuto assistere a questo scambio, se anche solo il 10% di loro avrà compiuto le stesse ricerche che ho compiuto io, allora un insulso film di supertizi in calzamaglia avrà svelato ad una pletora di giovani menti una triste realtà celata sotto la magnificenza di un’opera commemorativa che, per anni, è stato l’edificio più imponente del mondo.


Con buona pace di quel borioso scorreggione di Inarritu (o come cazzo si scrive), il quale arrivò a definire i film di supereroi “un genocidio culturale”.


Un genocidio culturale che può arrivare a sfornare pezzi di cinema come il film del quale mi accingo a parlare (in realtà, ovviamente, ne sto parlando dalla prima riga), un film che -citando altre mille recensioni, fra cui quelle dei sempre eccezionali ragazzi di Bad Taste- ci dice che il mondo è cambiato e riesce a mostrartelo in modo naturale e scorrevole.


Viviamo in un mondo clamorosamente diverso da quello in cui vivevano Lee, Ditko e Kirby quando, nel lontano 1962, ebbero l’idea di creare un personaggio che da lì in poi avrebbe rivoluzionato il mondo dei comics americani di supereroi col suo essere un ragazzino realistico, uno sfigato realistico, un eroe fallace realistico.

Eppure in questo film l’anima, il core di Peter Parker ci viene mostrato con dovizia di particolari in un modo forse inedito, anche per un eroe che ha goduto nel tempo di una miriade di trasposizioni dalla carta stampata (questo è il sesto film su Spidey, settimo se contiamo anche Civil War).


Jon Watts, accerchiato da un esercito di sceneggiatori, cala il supereroe rossoblu in un contesto perfettamente riconoscibile da chiunque sia o sia stato un adolescente, ad ogni latitudine ed in ogni epoca.


Gli fornisce un cast di supporto che, pur non tradendo l’epica Parkeriana delle origini, riflette meravigliosamente il mondo in cui viviamo oggi: multiculturale, multirazziale, multimediale.


Un mondo in cui i bulli non sono più -solo- i quarterback biondi e muscolosi ma anche un guatemalteco col fisico da sollevatore di raccomandate come l’eccellente Tony Revolori, che col suo Flash Thompson ci mostra un nuovo tipo di antagonista da liceo, non più impegnato a ficcare la testa degli sfigati dentro un cesso ma più bravo a sfruttare i soldi del papi e la sua postazione privilegiata da dj alle feste per umiliare chi ha preso di mira.
Un mondo in cui i cattivi sono tali solo se visti, almeno all’inizio, da una determinata angolatura.


Angolatura dalla quale potrebbero addirittura sembrarci delle vittime, o dei working class hero (termine intelligentemente citato da Stark nel finale) che subiscono i capricci dei ricchi e dei potenti.


In questo l’Avvoltoio dello straordinario Keaton supera sulla destra tutti i precedenti Villain Marvel regalandoci un personaggio non banale, col quale quasi empatizzare in determinati momenti, almeno fino a quando non ci rendiamo conto che la frottola del “lo sto facendo solo per la mia famiglia” ha ceduto il posto ad un uomo ebbro del potere che la sua nuova condotta gli garantisce.


Un villain protagonista di una scena (quella -senza scendere eccessivamente in territorio spoiler- in auto prima del ballo) pazzesca, dalla tensione palpabile e reale. Una vera minaccia finalmente.


Un mondo, ancora, in cui si muove un eroe tridimensionale, goffo, inesperto e sincero.

Più ansioso forse di impressionare un “padre” adottivo che non lo considera ancora degno d’attenzione e lo ingabbia in una serie di “test” castranti.

Peter è tutti noi, quando da adolescenti sogniamo di crescere frettolosamente per entrare nel mondo dei grandi, che ci sembra irresistibile e dorato, tralasciando le tappe fondamentali della giovinezza e trascurando la compagnia di chi quel cammino lo deve compiere assieme a noi.

Il Peter del perfetto Tom Holland ci diverte, ci appassiona, ci fa identificare con lui al netto degli straordinari superpoteri e fa andare in brodo di giuggiole ogni singolo nerd presente in sala cresciuto leggendo le sue straordinarie avventure, un Peter che riesce a risultare assoluto protagonista della pellicola anche di fronte alla minaccia di venire oscurato dall’ingombrante presenza di Robert Downey jr e del suo Tony Stark.


Le tanto temute apparizioni del vendicatore dorato infatti si rivelano in realtà misurate, intelligentemente studiate e per nulla forzate, ma assolutamente propedeutiche allo sviluppo del rapporto “padre-figlio” che è uno dei temi centrali del film.
Le easter eggs che i Marvel Studios ci regalano sono delle prelibate ciliegine su di una torta perfetta, sia in senso fumettistico (erano 30 anni che desideravo vedere una ragno-spia in azione) sia in senso prettamente cinematografico (i continui rimandi alla filmografia di John Hughes, diretti ed indiretti, sono lì a testimoniare la ricerca stilistica e sostanziale di Watts, Feige&co).
Le risate che permeano le due ore abbondanti di durata del film non sono mai fuori sincrono o stentate, ma sono invece corpose ed intelligenti.

In questo i cameo di Chris Evans sono puro cinematic gold, oltre che la dimostrazione pratica che, a questo punto dell’epopea del MCU, Kevin Feige potrebbe tranquillamente entrarci in casa e cagarci sul tavolo da pranzo e noi lo ringrazieremmo estasiati.


Fuck you! We’re Marvel!

Avrete ormai capito che, su questo sito, le mie recensioni spesso si abbandonano a considerazioni molto più personali, disordinate e laterali rispetto alla media delle recensioni classiche.
Quindi mi fermo qui, senza inoltrarmi ulteriormente in una noiosa disamina del film e tralasciando molti altri argomenti invero meritevoli di attenzione.
Lo faccio perché sono convinto che il mio scrivere non serva a “giudicare” una pellicola né a convincervi ad andare a vederla, quanto più a buttare fuori ciò che dopo una determinate visione sento dentro.


Non sono un giornalista né un critico, sono un nerd di quasi 36 anni che domenica sera ha lasciato che la storia di un ragazzino dal costume sgargiante e dai poteri pazzeschi gli ricordasse quanto quei fumetti letti in tenera età (e letti a tutt’oggi) gli abbiano cambiato la vita -e la testa- in meglio.


E che spera che i film tratti dalle suddette pagine possano, un passettino alla volta e in opposizione a tutto un nutrito esercito di snob e tromboni, cambiarla in meglio anche ai ragazzini di oggi.

Bentornato a casa Peter, ci sei mancato.

Anche se in realtà non te ne sei mai andato.

Immagini di Alex Ross