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BISOGNA LASCIARSI QUALCOSA ALLE SPALLE
MUSIC

L’Universo Ghemon



L’intensità con cui ho sempre ascoltato Ghemon non è una cosa recente e non è nemmeno una cosa che ho mai nascosto. Magari qualche pezzo più, qualche pezzo meno, qualche strofa più, qualche strofa meno, ma alla fine è sempre riuscito a trovare le parole per spiegare una condizione in cui mi trovavo, una delle storie che potevano essere mie, dei quadri dipinti con vocaboli ricercati, delle rime che come un amo riuscivano a far abboccare una malinconia celata nel fondale più scuro e insondato del mio essere.
Quando ho ascoltato il singolo, preludio di questo nuovo disco, l’unico pensiero che mi è affiorato è stato: «Lo sapevo». Dopo aver assimilato l’album, l’altro unico pensiero che si è affacciato tra le melodie e il mio canticchiare, è stato: «Ottimo lavoro, completo. Proprio bravo».

“ORCHIdee”. Mi è piaciuta la ricerca lessicale dietro il titolo, l’ambiguità del messaggio, l’abisso di combinazioni e significato.
La sineddoche non è solo la chiave per la comprensione di questa pianta così delicata e armoniosa, ma è la stessa che riuscirà ad aprire l’universo dietro ad una voce.
Ed io ho cercato di sondare un po’ questo spazio sconfinato, contaminato, riportato ad una purezza consapevole e volutamente combinato con vecchi elementi, magari proprio quei 107.

«In un’intervista spieghi che il titolo “ORCHIdee” è «una parola con dentro un universo». Puoi spiegarmi le associazioni di parole contenute nel titolo in che modo ti riguardano?»

«Mi riguardano tutte direttamente perché: “orchi” e “dee” combinati sono in contrapposizione ed è un po’ “buoni” e “cattivi” e anche “donne” e “brutti pensieri” e anche “orchi” e “idee”… Gli orchi che diventano idee e le idee che diventando degli orchi. E anche “orch.” e “idee” di orchestra. E anche lo stesso termine “orchidea” in fin dei conti è una pianta con tantissime leggende attribuite: esiste proprio un universo a parte rispetto agli altri fiori. Quindi erano troppi significati contenuti in una cosa e allo stesso modo il disco: ci sono io, però dietro esistono tutta una serie di possibili scomposizioni musicali, di genere; cose che da sole avrebbero un significato e messe insieme invece ne avrebbero altri. Sono per il multitasking, sono per le cose che hanno polivalenza, pluri significato, multi talento… sono per quello. Ti ho più o meno spiegato in che modo mi riguardano come universo di scrittura, di vita, romantico…»

«Il tuo percorso musicale è stato lungo e diversificato (per certi aspetti), ma coerente. Trovo che questo ultimo album sia l’effetto maturo di un percorso che doveva definirsi e in qualche modo credo che sia figlio di un’interiorità espressa in “Embrionale”. Mi sbaglio?»

«Non ti sbagli. “Embrionale” è appunto un embrione. Molto più inconsapevole. Però, sì, si deve partire da qualcosa e sono sempre stato coraggioso da quel punto di vista e hai trovato un giusto parallelo, sicuramente quello era un inizio.
Lì, ho iniziato nella mia testa un discorso di fare le cose in un determinato modo e in una settimana ho tirato fuori “Embrionale”. In realtà è stato profetico: quello è stato l’embrione e da lì anche la percezione di quello che facevo si è un po’ ampliata da parte della gente. Ero quello che faceva le cose in un altro modo, ma che si prendeva anche la responsabilità di farle, non solo di dirle».

«Io “Embrionale” l’ho sempre visto come uno specchio per degli aspetti più intimi di te e che quindi magari era sempre stato considerato un po’ meno rispetto al resto, ma che nonostante questo raccontasse molto più di te rispetto ad altro».

«Non ti sbagli affatto. Poi in realtà anche negli altri dischi ci sono tante cose di me che sono state un pochino messe via. Effettivamente la libertà dei suoni che c’era in “Embrionale” e come mi muovevo io in maniera inconsapevole, è la stessa legata con un fil rouge con questo disco, perché mi muovo altrettanto liberamente. Però lì la libertà era quella con cui si muove un ubriaco, pazzo, ebbro della vita; cioè uno che si è fatto un’ubriacata ed è felice e balla ed è armonico nei movimenti, e invece qua c’è un ballerino che ha studiato e s’è rotto il culo tutti i giorni, fin quando è arrivato tecnicamente al massimo delle sue possibilità, con la differenza che a te sembra naturale.
Tu volevi trovare un parallelo tra i due e sicuramente c’è ed è più o meno come l’ho sottolineato, credo. Lì è più d’istinto e qua è figlio di quello, ma più ragionato questa volta».

«Tu dici che in “Adesso Sono Qui”, decidi di scegliere «un nuovo modo di affrontare la musica (…) più leggero». Ma il tuo rap non è mai stato troppo “pesante”, anzi ci ho sempre visto una ricerca in te stesso, piuttosto che all’esterno (che poi alla fine è quello che potrebbe rendere il tutto più pesante). Che ne pensi?»

«“Più leggera” non tanto l’esternazione del rapper, ma “più leggera” la maniera in cui io mi sono approcciato alla musica. “Fantasmi”, “La Verità” sono dei pezzi intensi, molto pensati… “Adesso Sono Qui” è un pezzo più allegro. Quando ho scritto quel pezzo, ho cercato di mettermi il conflitto alle spalle e di vivere quella leggerezza che mi interessava avere nei confronti della musica. Il che non significa che io non ho sofferto nel fare questo disco o che certi giorni non mi sia incazzato o che un pezzo non andasse come io volessi. L’ho lavorato e sofferto allo stesso modo. “Perfection Takes Time”. Era più leggera l’attitudine: non c’era voglia di fare grossa morale alla gente. Volevo raccontare la mia storia. Era affrontare la cosa in un altro modo: fare la musica io più a cuor leggero, non più semplice. Il fatto di essere canticchiato “Adesso Sono Qui”, lo rende più semplice di quello che poi testualmente è (se uno va a leggere), ma questo è il gioco delle matrioske del titolo “ORCHIdee”, la stessa cosa: nasconde dietro una serie di trappole.»

Ed è confrontandosi sulle rispettive opinioni su leggerezza e pesantezza che inaspettatamente le parole si sono indirizzate verso quel vecchio discorso in cui Ghemon aveva dichiarato di voler lasciare il rap. Ed è quando qualcuno deve prendere decisioni chiare che si smarrisce per capire, e Ghemon mi ha confidato che ha voluto allontanarsi dal rap e «a non farlo per un po’ di mesi. È comunque stata una fase di studio, quindi a quel punto mi è ritornata l’allegria nel farlo. Ero libero e non lo dovevo fare, perché quella cosa era l’unica che sapevo fare. Ho scoperto che potevo strimpellare la chitarra, potevo fare due accordi al pianoforte, potevo segnarmi una melodia sul telefono: le armi a disposizione iniziavano a diventare di più. Quando ho capito questo, che era quello che volevo da me, allora mi sono sentito al sicuro e ho ricominciato a creare liberamente ed è per quello ci trovi tutti questi mondi nel disco».

«Hai equamente miscelato canto e rap in questo disco. È sicuramente un prodotto più innovativo e al contempo personale (per come l’ho percepito io). Ad una domanda di un’altra intervista dici di aver maturato la consapevolezza di poter utilizzare la voce come uno strumento. Come sei giunto a questa conclusione?»

«Sono giunto alla conclusione che avevo detto che non avevo più voglia di fare il rap e mi sono perso nel fatto che l’ho detto, ma era solo perché volevo costringere me stesso a fare le altre cose.
Poi mi sono allontanato e non è matematico che riacquisti la voglia, nel senso: non mi pare che Neffa l’abbia riacquisita la voglia di fare rap. Invece io l’ho ripresa perché l’ho alleggerita e in questo gli amici mi sono serviti tantissimo: Kiave, Macro, Mecna, Bassi e tutti i ragazzi di Unlimited… Perché mi hanno sempre detto di fare quello che cazzo volevo, di prenderla con più leggerezza, di non essere troppo categorico e in fin dei conti avevano ragione loro».

«E quindi hai iniziato a vedere la cosa in modo più leggero, ma anche più consapevole?»

«Eh sì, perché a quel punto le due cose vanno di pari passo, perché comunque tu acquisisci delle sicurezze di quello che sai fare e non sai fare, di quello che vuoi fare e di quello che non vuoi più fare, non vuoi più dire e quindi automaticamente dopo, una volta che hai eliminato il superfluo nel resto ci puoi sguazzare. Questo disco è stato uno sviluppo di cose imparate in precedenza su un territorio tutto nuovo. Se mi andava rappavo quattro battute, se mi andava ne rappavo venti: ero libero di fare come volevo».

La voce è il risultato di una consapevolezza e la consapevolezza lo è di un percorso in cui capisci quali siano le caratteristiche del tuo strumento e infatti Ghemon ha continuato dicendomi: «Se avessi voluto fare Frank Ocean o Kendrick Lamar non l’avrei potuto fare perché non ho quel genere di talenti là. Ne ho degli altri e quindi non potevo passare la mia vita ad emulare quello o fare una cosa che veniva da quell’altro, ma trovarne una che fosse mia. Quindi massimizzi gli sforzi, ti senti più libero, cerchi di fare al meglio quello che sai fare, che è quello che ho fatto. Poi non accetto di non saper fare una cosa, nel senso che mi impegno per migliorare anche le cose che in cui mi sento non preparato».

«“Da Lei (Con lo Scudo e la Spada)” è uno story telling (come a me piace tanto) e (a parte le parentesi) l’ho ritenuto un’evoluzione di “Voci Nella Testa”. Magari sono totalmente fuori strada, ma ci ho trovato lo stesso stile narrativo. Che ne pensi?»

«Certo. Mi è stato fatto notare. In realtà è perché l’autore è lo stesso dei due libri, quindi sì. Sicuramente l’impianto narrativo è semplice, l’epilogo dall’altro lato è che in “Voci Nella Testa” lei scende dal bus e la storia finisce così e invece in questa no: i due si sfiorano, alla fine si incontrano e non si mollano più. Però sì, vengono tutte e due dall’osservazione della vita di tutti i giorni, probabilmente se non prendessi i mezzi o facessi un po’ di osservazioni quando sono in macchina nel traffico, non le noterei alcune cose che devo raccontare. Sono due storie parallele, viste con gli stessi occhi, ma in momenti diversi. “Da Lei” me la sono immaginata un po’ di più e i protagonisti me li sono visti anche più adulti, mentre erano due ragazzi quelli dell’altra storia».

«Infatti, “Da Lei” me la sono immaginata come un’evoluzione».

«Sono d’accordo con te. Effettivamente fanno parte dello stesso impianto narrativo, poi le storie raccontate sono diverse e… Hai ragione tu, non c’è molto da commentare al margine».

«Nel commento a “Fuori Luogo Ovunque” tu dici: «(…) è come se suonasse un MPC di J Dilla, (…) ma è una persona che sta suonando una batteria”. Il mio quesito è: per quale motivo hai deciso di avvalerti di strumenti veri, se il risultato è quello di avvicinarsi ad un suono campionato?»

«Che domanda cattivella. In realtà i due mondi si sono influenzati. Lo stile di J Dilla all’epoca Madlib, proviene da un campionamento di robe super musicalissime e dopo c’è un grosso recupero del funk, del soul e poi ha anche suonato un po’; Madlib stesso ha fatto tante cose suonate, è figlio di un jazzista… Dall’altra parte un musicista come Robert Glasper, che è uno dei jazzisti più cool del momento è stra influenzato da Dilla, dalle sue dinamiche: i due mondi si sono influenzati a vicenda. Quindi per me era più interessante provare ad andare dall’altro lato, ma con delle persone che suonassero insieme a me. Mi ero sempre immaginato il mio live con la band e quindi per arrivarci, questa è stata un’ottima scelta. Potevano esserci anche dei pezzi con la batteria campionata e dei pezzi con la batteria suonata, mentre invece ad un certo punto ci sembrava così fico suonare le cose in quel modo (che suonava come i break che si campionano) che abbiamo preferito questo. E’ nato prima l’uovo o la gallina? Non lo so. Le due cose si influenzano: questa volta abbiamo scelto così e non è escluso che la prossima volta faremo diversamente o le due cose si mischieranno di più».

«Il cambiamento di stile di abbigliamento è andato di pari passo con quello musicale?»

«La cosa dei vestiti, come tutte le altre era un po’ sotterranea. Il cambio d’abito è anche un cambio d’aspetto, d’immagine, 30 chili in meno… Uno si trova più a suo agio, si veste diversamente, mi sarei vestito così anche prima, ma non sono sicuramente conosciuto per essermi vestito sempre come il resto dei b-boy. Diciamo che questo arriva alla fine di un percorso. E’ la tappa di un percorso di maturazione, consapevolezza: uno sofistica i gusti, diventa, vuole delle cose diverse, anche più marcate; si sente di potersi vestire in un determinato modo (dentro e fuori). Un adolescente che poi diventa un guaglione, che poi diventa un ragazzo, che poi dopo diventa un uomo. Di conseguenza quando l’età di dentro coincide con quella di fuori, si arriva anche a quello, ovvero ad un’evoluzione anche sotto quel punto di vista. Chissà che non abbia ragione tu, che il vestito musicale e il vestito dell’abito, non siano concisi. Potrebbe essere. Dentro di me queste erano tutte cose che nei fatti ho concretizzato qua, in questo disco, ma erano tutte familiari. Il problema sarebbe stato piuttosto non concretizzarle, ma continuare ad anelare. Per me queste cose erano già così, ma evidentemente ci voleva un percorso».

«Con l’uscita di questo album, il resto è passato in secondo piano… Ma il disco che avevi registrato insieme a “Qualcosa è Cambiato – Qualcosa Cambierà Vol. 2” che fine ha avuto?»

«Qualche pezzo è uscito nel mixtape “Aspetta Un Minuto”, qualcosa è stata il girino di alcuni pezzi di questo disco (che poi è diventato tutt’altro) e altre cose sono nel mio computer. Quel disco doveva uscire subito, ma non è stato così, quindi poi non avrebbe avuto più senso farlo uscire. Era una cosa a metà tra questo disco e quello di prima, “Qualcosa E’ Cambiato”. La prossima volta non farò annunci di dischi, se non sono già in stampa, perché nessuno ci resti male. Alla fine poi, ci siamo impegnati a fare un disco che mi rappresentasse di più. Se fosse uscito “Scritto Nelle Stelle” ora, sarebbe stato un disco di me di tre anni fa».

«“ORCHIdee” è stato il disco che volevi?»

«Ma sì, dai. Ma comunque c’è sempre un disco che uno vorrebbe fare. Sicuramente è il disco che avevo promesso a me stesso e anche agli altri, da un po’ di tempo. Poi la mia mente, come è giusto che sia, si proietta anche in avanti e quindi penso di aver imparato un sacco da questo disco, ma di poter far meglio; ci trovo un sacco di cose che posso sviluppare. Perché non è un punto d’arrivo, ma un punto di passaggio, anzi, un campo base a metà della montagna o comunque una bella vetta, ma sopra ce ne sono delle altre ancora. Non lo so, lo penso così. Comunque sicuramente è un disco che avevo promesso e quindi per l’ennesima volta dentro di me si solidifica l’idea che storto o morto nella mia vita quello che ho detto, ho fatto sempre. In fin dei conti, aldilà dei concetti e delle critiche, delle vendite, sapere che sono una persona di parola è una bella soddisfazione».

«Ma quindi in questo momento ti identifichi in questo disco?»

«Sì, sì, di brutto. Coincide con la persona che sono: mi rappresenta, mi riguarda, mi sento una persona nuova, anche con i difetti di sempre. Mi sento catapultato da un’altra parte in cui mi sento molto a mio agio e basta. Tra l’altro è un mezzo giornalistico l’idea che io sia uscito dal rap. Da quale rap italiano sono uscito? Io non sono uscito da nessuna parte. Ho solo fatto a modo mio una corrente della cosa, ma come sempre! Non sembrerà strano a qualcuno che le cose siano andate così. Piuttosto prima dicevo le cose che non mi piacevano del rap italiano, ora trovo poco interessante dire nei pezzi che cosa non mi piace del rap italiano. Trovo più interessante parlare di altro, ma per il resto mi sento solo uno che ha pienamente portato a compimento ciò che l’hiphop ti dice e cioè: crea qualcosa dal nulla, fai a modo tuo, distinguiti. Queste cose sono vere e credo di averle messe in pratica tutte quante, in questo disco ancora di più che in quelli prima».

Esaustivo con le parole, il resto è musica.