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In viaggio con Francesco Cabras



Questo più che un ” articolo “, e` un invito a ” viaggiare ” con una persona che, per indole e per passione, non si e` adagiata nel confortevole sofà delle abitudini e della routine, ma ha spaziato da un campo all`altro, partendo dal giornalismo, fino a diventare fotografo e regista.


Foto esposta nella mostra dell`artista “The Democracy of the wall’ + “Scraps” in corso a Torino fino al 27 novembre. Courtesy: Raffaella De Chirico Arte Contemporanea

Mi piace pensare che questo viaggio metaforico con Francesco Cabras, che e` necessario sottolineare, non e` figlio d`arte ma si e` fatto da se`, possa servire da suggerimento silenzioso a chi come un first penguin, tentenna prima di tuffarsi nel mare delle possiblità che la realtà, anche in periodi di crisi – e non pensiamo di essere romantici, ne` naive – può offrirci.


Foto esposta nella mostra dell`artista “BDSM, Tecniche di Consolazione” in corso a Milano fino al 22 dicembre. Courtesy: De Chirico & Udovich Con-temporary Art

Ciao Francesco.

Le basi del tuo eclettismo possono essere fatte risalire all`eta` di undici anni, quando cominci a trascorrere la maggior parte del tuo tempo in camera oscura e a interessarti al mondo dell`arte visiva.

Cosa ti affascinava maggiormente del mondo della fotografia in quegli anni? Quali sono stati i tuoi primi scatti?

Ero appassionato di Ansel Adams, uno dei padri della fotografia.

I miei mi portarono a vedere una mostra su di lui.

Fu una folgorazione! Mi ricordo, in particolare, una faccia di granito del Yosemite Park. Ansel Adams e` il fotografo più classico che esista, ritrae essenzialmente la natura.

Pero` in questo suo classicismo ritraeva talmente bene i tessuti delle superfici, di una roccia, di una foglia, da diventare quasi astratto.

C`era, tutto insomma, in quella fotografia: il rigore e l’astrazione!
I miei primi scatti li feci un po` per emulare i fotografi che mi piacevano.

Erano soggetti naturali oppure ritratti di chi mi stava attorno, per esempio mio nonno.

Ero appassionato di pittura, in particolare di Salvador Dali, che in effetti può piacere a un bambino perché e` molto onirico, fantasioso, cominciai a fare anche delle fotografie che volevano essere metafisiche. Spesso erano schifezze!

Oppure mettevo oggetti insieme. Mi piaceva molto anche De Chirico.

Passai tantissimo tempo da solo in camera oscura.

La camera oscura e` una condizione strana, in cui il tempo e lo spazio finiscono, perché essendo al buio non hai riferimenti. Essere in camera oscura e fare quello che mi piaceva fare mi assorbiva moltissimo.

Cercai subito di farlo anche come lavoro in un certo senso, per esempio, facendo le foto dei miei amici che giocavano a calcio e vendendo loro le stampe.

Non hai mai frequentato un corso di fotografia?

Mio padre mi diede un`infarinatura tecnica, ma non ho mai frequentato un corso.

In realtà il mio approccio con la tecnica e` che imparo il minimo per imparare a fare quello che mi serve.

Poi mi fa fatica. Fondamentalmente sono pigro.

E’ un limite, ma è così.

Contemporaneamente agli studi di psicologia, cominciasti all`eta` di ventun anni a intraprendere dei viaggi, cosa che poi ti condusse a scrivere e collaborare per le maggiori riviste di viaggio e di musica come giornalista e fotografo.

Sì, il primo viaggio importante da adulto fu in India. Restai li` alcuni mesi. Avevo pochissimi soldi. Se ripenso a come viaggiavo all`epoca…

Feci alcuni giri e poi andai alle Isole Andamane, nel Golfo del Bengala, di fronte alla Birmania.

All`epoca erano chiuse e si poteva stare solo cinque giorni, invece io vi rimasi quasi un mese.

Praticamente ogni volta che dovevo tornare scappavo.

Alla fine le autorità, scoperto l`inghippo, mi arrestarono, ma in modo bonario. In prigione mi trattarono con i guanti, il curry era ottimo e furono loro stesse a rimettermi in nave.

Allora le Isole Andamane si potevano raggiungere solo via mare da Calcutta.

Ci volevano quattro giorni di navigazione. Una sorta di viaggio della speranza. Per me rappresentavano l`incarnazione del sogno esotico conradiano. La giungla, le popolazioni primitive…Un`autentica avventura a fumetti, anche se la realtà è sempre molto diversa.

Una volta tornato in Italia, andai a Milano visitando le redazioni e portando le mie diapositive senza conoscere nessuno, nemmeno un nome. Forse fu questo aspetto ingenuo e naive che suscito` una certa simpatia.

E dopo tanti no, finalmente un redattore de l`Europeo, Saverio Paffumi, pubblico` un mio piccolo reportage sulle Andamane.

Da li` acquisii fiducia e, continuando a viaggiare per il Sud-Est asiatico, continuai a proporre fotografie e racconti.

Appassionato di musica, feci lo stesso con le riviste di quel settore. Anche quello fu un sogno realizzato perché intervistai tantissimi musicisti, andando ai loro concerti con un accredito, senza invece scavalcare come facevo sempre fino a un paio di anni prima…
Tra gli incontri più belli ci sono Nina Simone, Mick Jagger solista in concerto a Jakarta…

Nel 1999 hai fondato con il regista e attore Alberto Molinari, la società di produzione Ganga con cui hai realizzato documentari di creazione, d`arte e videoclip.

A un certo punto, dunque, hai smesso di impugnare la penna e di scrivere e di girare con la macchina da presa.
Cosa ha determinato questo “passaggio”?

Anche se continui a scrivere testi di canzoni e hai vinto il premio letterario internazionale Andersen nel 2001, si può dire che a un certo punto hai scelto di esprimerti in maniera diversa?

Fu un passaggio scaturito per due motivi. Se unisci la scrittura, la fotografia e la passione per la musica, lo sbocco più naturale e`occuparti di regia, perché la meraviglia della regia e`che ti permette di lavorare con questi tre elementi combinandoli e avendone la responsabilità totale.

In aggiunta, oltre alla fotografia, alla musica, un`altra passione assoluta erano i film.

Fui un po` precoce. A 14 anni avevo già visto quasi tutti i classici della storia del cinema.

Un altro elemento fu che pensai che sarebbe stato meglio interrompere l`amore compulsivo per il viaggio. Era una droga sana, ma aveva tutte le caratteristiche della droga.

Una curiosità. Nel 1995 sei riuscito a intervistare, secondo giornalista al mondo, Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari.

L`anno prima ero stato in Birmania per fare dei reportage dopo di che l`Ambasciata Birmana a Roma mi aveva revocato il visto a causa di alcuni articoli di contenuto politico che avevo scritto.

Ma la Birmania mi era rimasta nel cuore e feci di tutto per poterci tornare; l`anno dopo ci riuscii con un visto da guida portando un gruppo di turisti, attività che facevo spesso per ottimizzare i costi dei viaggi.

Finito il lavoro con il tour rimasi, e mi misi in contatto con alcuni membri del NLD (National League for Democracy).

E un giorno accadde che mi fissarono l`appuntamento.

All`epoca mi occupavo molto di turismo sostenibile e volevo anche fare un`intervista su questo tema poiché Aung San Suu Kyi scoraggiava il turismo sostenendo che questo favorisse la dittatura.

Fu un`esperienza notevole.

I tuoi ritratti sono molto intensi.

Sembra di assistere a una specie di gioco non privo di tensione, in cui pero` alla fine i soggetti calano la maschera e sembrano affidarsi al tuo obiettivo rivelando la parte nascosta di loro stessi, o la loro vera natura.

Come nascono queste foto?

A prescindere da una componente misteriosa e inspiegabile comune a qualsiasi processo espressivo, i miei ritratti nascono essenzialmente perché dentro di me ho chiaro esattamente ciò che mi interessa dello sguardo di una persona.

Quando vedo quella temperatura dello sguardo in una persona, scelgo quella persona, quegli occhi.

E` una specie di innamoramento immediato.

Esiste poi un elemento antropologico, sociale, che accade, soprattutto in Asia, per cui se stai fotografando delle persone che non sono tanto abituate a essere fotografate, le reazioni possono essere due, e sono opposte: o stravolgono la propria espressione, oppure sono perfettamente impassibili, e diventano automaticamente i migliori soggetti perché rimangono naturali.

Penso che questo dipenda dal rapporto che hai con la tua immagine riprodotta.

Se le circostanze lo permettono prima di fotografare chiedo il permesso. Ma si tratta di attimi brevissimi e di pochi scatti.

Anche se mi piace il mezzo digitale, ho ancora qualche remora spontanea a usarlo in senso quantitativo.

Quando faccio una foto mi sembra sempre un atto talmente invasivo, che anche se il risultato potrebbe valere la pena, provo sempre a “saccheggiare” il meno possibile compatibilmente con il ‘valore’ della preda!

Dall’Asia ti sei spostato in Medio Oriente.

E` legato a una ragione pratica, perché da regista a un certo punto ho cominciato a collaborare con delle societa` di produzione libanesi.

E`cominciato per caso.

Sarebbe facile dire che fuori dall’Italia spesso si trova una più alta professionalità e rispetto per le competenze, ma lo ribadisco.

Chiaramente in Italia ci sono anche felici eccezioni che al momento però confermano la regola.

The Big Question, The Akram Tree. Cos`hanno in comune i vostri documentari?

L`idea di base e` far parlare le persone e non prendere una posizione con una tesi già in tasca atta a condizionare chi guarda e a nutrire le proprie convinzioni.

Tanto una posizione personale viene espressa inevitabilmente ed e`anche abbastanza chiara, come in ‘Italian Soldiers’, un documentario sull’identità culturale, o ‘The Big Question’ sulla percezione del divino.

Ma il principio di base, e` che il punto di vista dei registi, quello di Alberto, come il mio, non sia messo in primo piano.

Ci interessa di più raccontare e poi lasciare aperti diversi livelli di interpretazione. Più sono, meglio e`, senza pero` creare confusione.

Poi se uno affina lo sguardo, secondo me, lo capisce anche il punto vista dell`autore.

Ci sono dei cosiddetti messaggi, pero` non sopporto i film in cui il messaggio sociale o politico prende il sopravvento sul risultato finale del film.

Penso sia una delle cose peggiori che ci possa essere per qualsiasi tipo di arte.

L`Italia soffre tantissimo di questo, nel senso che ci sono molti film o documentari inguardabili, pero` solo per il fatto che parlano di temi sociali vengono considerate delle buone opere.

E questa non deve necessariamente corrispondere.

Qual e` l`impulso che ti spinge a creare?

Cercare di fare più soldi possibile!

No, non e`vero. E` un innamoramento.

Puo` bastare un dettaglio minuscolo a farti partire.

Comunque quando l’impulso latita, la creazione si può costruire anche con la disciplina o il tentativo reiterato, e non è detto che l’esito sia inferiore.

Sei soddisfatto dei tuoi risultati?

Pensi che in generale un artista possa essere soddisfatto?

Posso parlare per me.

No.

Non sono soddisfatto.

Ci sono alcune cose che sono discrete, e quasi tutte più che dignitose direi, pero` si potrebbe fare molto molto meglio.

Come nutri il tuo talento artistico?

Grazie per l’assunto! Vedendo, leggendo o vivendo qualcosa che possa raggiungermi.

In senso di bellezza esperienziale non solo estetica ovviamente, nella gioia e nel dolore diciamo…

Per esempio, adesso c`e` la mostra di Lee Jeffries a Roma al Museo in Trastevere.

Quando vedi qualcosa di bello, il processo di apprendimento non lo interrompi mai. Penso sia fondamentale.

Altrettanto quando finisce un amore importante per esempio, avviene un reset intimo doloroso che può mettere in circolo processi anche creativi.

Comunque direi che il segreto è tentare di tenere i sensi sempre in uno stato ricettivo e possibilmente non giudicante, un’attitudine non facile.

Nel 1997 hai vinto il premio come miglior interprete protagonista al Sacher Festival di Nanni Moretti con Cosmos Hotel di Varo Venturi.

In seguito hai recitato in La passione di Cristo di Mel Gibson, Il mandolino del capitano Corelli di John Madden, Equilibrium di Kurt Wimmer, Rasputin di Louis Nero ecc.

C’e` un regista in particolare con cui ti piacerebbe recitare?

Potendo sognare, Jim Jarmusch. Uno dei miei registi preferiti, mi piace come utilizza gli attori facendoli recitare in modo molto asciutto laconico, silenzioso.

Non sono un bravo attore purtroppo ma penso che in quel modo, se sfruttato bene, potrei rendere abbastanza.

In Italia mi piacciono molto Crialese, Ciprì, Maresco e Alice Rohrwacher.

Qual’e` la tua arma vincente? Hai spaziato da un campo all`altro, riuscendo a ottenere risultati di tutto rispetto.

Ho fatto, come molti, alcune piccole cose interessanti forse, ma non sono affatto un vincente, anzi.

Penso sempre che avrei dovuto focalizzarmi solo su un campo.

Detto ciò semplicemente cerco di alimentare ciò che mi piace fare ma l’arma segreta non esiste purtroppo.

Parlaci dei tuoi futuri progetti.

Sto lavorando a documentario che ho girato in Libia durante le prime elezioni democratiche dopo quarantadue anni di dittatura di Gheddafi.

Come fotografo vorrei tornare appena possibile in Bangladesh per un progetto già iniziato, ho due mostre in corso a Torino e Milano con i galleristi Raffaella De Chirico e Omero Udovich.

E poi un altro documentario cui stiamo lavorando da cinque anni con Alberto Molinari girato tra Nepal e Italia, una storia d’amore e ideologia tra un uomo italiano e una ragazza di Kathmandu.

Che cosa consiglieresti ai giovani che cercano di emergere?

Essere intraprendenti, buttarsi, non accontentarsi assolutamente solo di studiare, ma fare, fare, fare.

Stare dietro a gente che ti piace, che stimi, e soprattutto vedere più cose possibile e puntare alla qualità e alla personalità.

E non trascurare i dettagli, la cura e il culto dei dettagli, per poi essere anche in grado di abbandonarli.

Sia che faccia il regista che il fotografo, la tecnologia digitale ha portato a una democratizzazione esponenziale che prima non si poteva nemmeno immaginare.

Personalmente, ho potuto iniziare a fare il regista solo grazie a questo.

Il digitale sia come ripresa, che come montaggio, ha permesso di realizzare dei prodotti artisticamente vari e formalmente ottimi con una spesa non della meta`, ma di cento volte inferiore a quella di pochi anni prima.

Questo ha dato in un certo senso uno strumento a chiunque.

Penso sia una circostanza eccezionale benché per le nuove generazioni è diventata subito scontata.

Parallelamente il livello della mediocrità sale, perché nel contempo tutti fanno tutto ed e` difficile orientarsi.

In questo momento siamo in un periodo di transizione ma è solo contingente al momento storico, presto si staglieranno solo quelli che hanno veramente qualcosa da dire.

Quanto e` possibile tutto questo in Italia?

Consiglierei di andare all`estero o comunque imparare subito almeno una lingua bene. Ma questa e` una cosa un po`demagogica.

Ovviamente non tutti possono andare e non e` che dev`essere l`unica condizione.

Ci sono esempi di persone che fanno delle cose belle in Italia, così` come ci sono tanti esempi di altri che vanno alla New York Film Accademy, ma non ne traggono niente fuorché potersi fregiare del titolo nel curriculum.

Perché se non nutri il tuo spirito, la curiosità, l’ intelligenza… Devi nutrire quello.

Poi assolutamente, la New York Film Accademy o anche sotto casa.

Andare fuori è un’esperienza utile soprattutto perché ti mette a contatto con altre persone e con una professionalità più meritocratica.

Per saperne di più:

http://francescocabras.com
http://www.youtube.com/TheGangaTube
http://www.dechiricogalleriadarte.com
http://www.imdb.com/name/nm0127768/
http://www.massagrigia.it