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Boom Da Bash: l’intervista!



Dal roots all’hip hop, dalla new soul alle atmosfere elettroniche: ecco cos’hanno in mente i Boom da Bash per il loro nuovo e criptico lavoro, di cui non vogliono svelare niente.

Dopo il successo del tour “Made in Italy” i Boom da Bash stanno per regalare a tutti i fan un nuovo disco, con più influenze, più variegato e più maturo, anche se comunque non siamo riusciti a strappare al Sound salentino molte parole a riguardo.

Un video girato a New York con Dj Double S, le esperienze passate che s’incastrano con i progetti futuri, gli Stati Uniti, le scelte stilistiche: ecco una chiacchierata con uno dei Sound System più talentuosi dello stivale.

I Boom da Bash, freschi di tour, sono già carichi per spargere nuove good vibes e a parlarci (poco) del loro progetto in uscita nelle prossime settimane.

 

Intanto come state? 

Non ci possiamo lamentare, anche se inizia a farsi sentire un po’ di stress pre-nuovo disco. Si prospettano mesi carichi di lavoro e sudore.

Il “Made in Italy tour” è finito da poco, cosa vi è rimasto di quest’esperienza?

E’ stata un’esperienza bellissima. Abbiamo fatto oltre 100 date in tutte le parti d’Italia in due anni, numerose repliche, ricevendo ovunque un grosso feedback. Una grossa soddisfazione, dopo tutti i sacrifici fatti, vedere che dal nord al sud della penisola i ragazzi cantano i nostri pezzi e apprezzano quello che facciamo.

Avete girato tutta Italia, ed ormai è un po’ di anni che lo fate. Che differenza c’è fra bunnare dancehall in un club e fare un concerto in un palco grande, con un vero e proprio tour?

E’ chiaro che ritrovarsi con 4000 persone su un grande palco dà una scarica adrenalinica diversa da quella che senti in un club di dimensioni più ristrette ma per noi non ha mai fatto differenza più di tanto. Quando siamo sul palco, qualsiasi esso sia, diamo sempre e comunque il 100%, che ci siano 10 persone o che ce ne siano 10.000. Abbiamo il dovere di fare della buona musica e uno spettacolo entusiasmante sempre e comunque in qualunque circostanza.

L’esperienza più bella di questo vostro tour?

Sicuramente l’esperienza più bella non solo in questi due anni di tour ma direi in tutta la nostra carriera è stato il mini tour negli Stati Uniti. Non avremmo mai pensato di avere la possibilità di portare le nostre canzoni a miglia e miglia di distanza dal posto in cui siamo nati, in quella che è considerata quasi la Mecca per tutti gli artisti, di qualsiasi genere musicale si parli. Ci riteniamo molto fortunati per questo.

A proposito di questo, come avete trovato New York e gli States in generale?

Direi che l’intera esperienza americana ci è stata molto utile, soprattutto è stato molto interessante capire quanto differente e superiore sia il Music Business americano rispetto al modello italiano. In America, l’approccio nella ricerca del talento è completamente diverso. Se hai dei buoni pezzi, se sei un bravo artista e fai buona musica, non conta che tu sia conosciuto o meno, puoi bussare alla porta di un grosso produttore e ti verrà dato ascolto, se vali e hai i numeri per farlo. “Danger” è stato in rotazione su Mtv Iggy negli stati uniti ad esempio e in Florida è tutt’ora nelle radio. In Italia invece, devi conoscere qualcuno che a sua volta ti presenterà qualcun’altro, se non hai agganci particolarmente rilevanti con molta probabilità resterai tu e la tua musica in cameretta. Clientelismo musicale lo chiamo io. Noi siamo riusciti a costruire qualcosa di grande anche da soli grazie a Dio, perché abbiamo avuto spirito di sacrificio e pazienza.

E del pubblico che mi dite? Avete trovato differenze nell’affrontare realtà più grandi e lontane fra loro?

Credo che indipendentemente dalla locazione geografica, la forza della nostra musica stia proprio nel far recepire esattamente sia il messaggio nelle liriche che le vibrazioni musicali che trasmettiamo a tutto il pubblico italiano. Ci è capitato di fare dei grandi show tanto in Salento, quanto in Sicilia o in Trentino. La reggae music è talmente potente che dalla Giamaica è volata molti anni fa fin qui, in Italia, appassionando persone con una diversa cultura, una lingua diversa. E la sua forza è intatta ancora oggi, dopo anni ed anni riesce perfettamente ad unire orecchie diverse, città diverse, vite diverse.

Ho visto che siete molto criptici riguardo questo nuovo progetto che avete cominciato ad affrontare. Cosa potete dire a Goldworld?

In realtà posso dire poco di più di quanto non sia già trapelato tra i nostri fans (lol). Cosa vorresti sapere?

Non so, qualche featuring, qualche nuovo stile, qualche curiosità che volete dirci e che non avete mai detto a nessuno.

E’ un disco molto più maturo, molto più carico di influenze musicali diverse, più di quanto già non lo fosse Made in Italy, il nostro secondo lavoro.

Abbiamo sperimentato nuovi sentieri musicali, mantenendo sempre come fulcro il reggae. Nel nuovo lavoro ci saranno roots, la dancehall ma anche un pizzico di nu-soul, un tocco di elettronica e un po’ di ospiti d’eccezione, italiani e non. Al momento siamo molto soddisfatti del lavoro fatto finora e speriamo vivamente che la nostra fanbase apprezzi e ci supporti come sempre ha fatto in questi 10 anni di attività.

Uno degli ultimi vostri pezzi è “The message” con dj Double S. Come giudicate la collaborazione che stiamo vedendo crescere in Italia fra l’hip hop e il reggae?

Abbiamo scelto di collaborare con Double S perché è una pietra miliare dell’hip hop italiano. Quando parli della storia del rap in Italia non puoi non parlare di Double S. Il pezzo è uscito nel periodo in cui si discuteva animatamente dell’importanza degli anni 90 per il rap odierno e non è stato un caso, se presti attenzione alle liriche. Qualcuno ha detto che negli anni 90 non c’era consapevolezza reale, c’erano tentativi di imitazione. Noi siamo di un’altra opinione perché pensiamo che realtà come Colle der Fomento, Neffa, LouX, Double S, Sud Sound System ed Isola Posse abbiano segnato un’epoca fondamentale per noi artisti moderni. E’ ovvio che i mezzi a disposizione vent’anni fa non erano gli stessi di cui disponiamo adesso ma non è possibile prescindere da chi ha scritto pagine indelebili nella storia della musica.

 

 

L’incremento di questo legame, che comunque non è una novità, fra l’hip hop e il reggae, non credi possa derivare dai cambiamenti di tendenza che attraversiamo stagionalmente in Italia?

In Italia le tendenze sono cicliche, purtroppo, e non fa bene ad un artista gestire il suo lavoro in base a cosa va e cosa non va in radio adesso. Ora è l’hip hop ad essere sotto i riflettori del mainstream, anzi mi correggo, un certo tipo di hip hop. Magari tra due anni lo sarà ancora il reggae. Pensa a Snoop Lion e la sua svolta musicale o a French Montana (che personalmente non seguo) che per il singolo con Nicki Minaj ha utilizzato il campione di “Murder she wrote”, un classico del raggamuffin giamaicano. Forse già adesso qualcosa sta cambiando nelle tendenze di cui parlavamo.

Siete sempre stati appassionati di reggae, avete sempre suonato reggae o in passato avete, anche singolarmente, sperimentato qualcosa di diverso?

In realtà proveniamo quasi tutti da panorami musicali diversi. Chi dall’hip hop, chi dall’elettronica. Io personalmente ho iniziato a fare musica a 13/14 anni, ho suonato punk-hardcore fino a qualche anno fa, con un progetto che mi ha fatto imparare tantissime nozioni sulla musica. Proprio grazie alle differenti nostre vite musicali siamo riusciti a creare uno stile che ormai è solo nostro, una sorta di modern reggae, come qualcuno ha detto, ricco di influenze. Ci tengo poi a dire che ognuno di noi ascolta musica davvero di ogni tipo, i nostri ascolti sono molto variegati.

Che destino ha la dancehall in Italia? Modificherà la sua forma per avvicinarsi sempre più alle sonorità elettroniche che vanno tanto in Jamaica ultimamente? Si incastrerà sempre più con il rap? Qual è il prossimo gradino secondo voi?

È dai tempi del primo Capleton che il reggae si mescola con l’hip hop e credo che adesso la scena stia già cambiando radicalmente soprattutto per quel che riguarda la musica che viene suonata nelle dancehall. Major Lazer ne è l’esempio lampante, moltissimi fans della musica jamaicana seguono Diplo e le sue produzioni. Personalmente apprezzo molto l’evoluzione della dancehall ma allo stesso tempo sono abbastanza nostalgico. Se ascolto “Who dem” di Capleton o “Give it to her” di Tanto Metro e Devonte penso che per quanto ci si possa impegnare non verranno mai più fuori pezzi di cosi grande impatto, ma le cose cambiano e questo lo sappiamo tutti. L’importante è non dimenticare mai quello che c’è stato prima.

Grazie mille per questa chiacchierata. Aspettiamo con ansia il vostro nuovo progetto allora.

Grazie a te.